Italia
Lampedusa un mese dopo: siamo tutti sullo stesso barcone
Ad un mese dal naufragio del 3 ottobre davanti alle coste di Lampedusa, ieri si è svolta una commemorazione organizzata dal Comune di Lampedusa e Linosa e diverse realtà sociali, tra cui la parrocchia, la Caritas di Agrigento e Legambiente. Sono stati piantati 40 alberi e accesi 366 lumini. Gli altri saranno piantumati in seguito nella riserva naturale dell’isola e in altre zone del Paese. Finora sui tronchi non sono stati scritti i nomi.
Intanto 108 sopravvissuti eritrei dello stesso naufragio (una quarantina di minori sono stati spostati in Sicilia), sono ancora confinati nel sovraffollato centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola, dove dormono da un mese su materassi sporchi, capanne di plastica e gomma, in scarse condizioni igieniche e di vivibilità umana. Anche perché un centro che potrebbe ospitare solo 250/300 persone non riesce ancora a scendere al di sotto dei 700, con gli sbarchi e i salvataggi che continuano al ritmo di 200 profughi a notte, grazie al bel tempo e al mare «forza olio». Dall’inizio del 2013 ad oggi ne sono arrivati 37mila (di cui circa 14mila nella sola Lampedusa), in fuga da Siria, Eritrea, Somalia, tutti Paesi in situazione di conflitto o instabilità. I centri siciliani sono al collasso, le prefetture non sanno più dove sistemarli. Eppure di promesse ne sono state fatte, anche a livello europeo.
L’opinione pubblica mostra, soprattutto nei forum online, una doppia anima, e quella nera è nauseante: da un lato si commuove quando vede in tv le scene toccanti; dall’altro non fa che inveire contro il presunto «buonismo» di stampo cattolico che si china a soccorrere o accogliere persone costrette a fuggire per vivere, apostrofate nei modi più indegni: «clandestini», «invasori», «parassiti», «terroristi». Perché prima bisogna pensare agli italiani, ovviamente. Quando ci si renderà conto che, in un Paese che cade a pezzi, o ci si salva tutti insieme o non si salverà nessuno? Non siamo già tutti nello stesso barcone?