Opinioni & Commenti

L’Africa senza politiche di pace s’attacca anche al calcio

di Riccardo Moro

I Faraoni hanno domato i Leoni. L’Egitto in cima alla piramide del calcio!». Con questo titolo Le soleil, uno dei più diffusi quotidiani senegalesi, ha salutato l’11 febbraio la sesta vittoria dell’Egitto nella Coppa d’Africa di calcio. Come il quotidiano di Dakar, quasi tutti i giornali del continente hanno dedicato le prime pagine al campionato continentale conclusosi domenica 10 febbraio in Ghana. In tempi di globalizzazione la febbre del calcio contagia tutti i continenti e l’Africa non è da meno dell’Europa o dell’America Latina. Giunta alla ventiseiesima edizione, la Coppa d’Africa è uno degli appuntamenti più seguiti. Attira campioni di fama mondiale, come il camerunese Eto’o che gioca nel Barcelona, e alimenta tradizioni ormai consolidate, come la rivalità tra i «Leoni» senegalesi e quelli del Camerun o tra i «Faraoni» egiziani e i difensori della Nigeria, considerati i più concreti del continente.

Sin dalle sue origini l’uomo ha usato lo sport come occasione di dialogo. Il calcio contemporaneo appare dotato di un profilo meno ideale, più popolare forse, e per questo più ricco di contraddizioni, forse più vicino al panem et circenses che alla tradizione olimpica. Sempre più mescolato al denaro, in Europa è cresciuto di peso economico e mediatico, sino a raggiungere punte di clamoroso squallore nel nostro Paese. In Africa mantiene ancora una sorta di ingenuità che lo ha preservato, sinora, dalle tentazioni di Mammona. La sua potenza è però notevolissima. In Guinea Conakry la partecipazione alla Coppa d’Africa ha di fatto determinato in queste settimane la sospensione dello sciopero nazionale dichiarato dai sindacati. Un anno e mezzo fa uno degli scioperi precedenti, durato dieci giorni e costato un numero tuttora imprecisato di morti, si era svolto durate i mondiali di calcio e le partite più importanti servirono davvero ad alleggerire la tensione. E il governo concentrava la scarsa energia elettrica nelle ore in cui giocavano le squadre più famose, sperando che i manifestanti preferissero la televisione alla piazza. Non sappiamo quanto il calcio africano si manterrà «puro» e quanto sarà in grado di rappresentare una occasione sincera di festa comune per il continente. Sappiamo che l’Africa sta camminando con cautela nella direzione di rafforzare gli strumenti istituzionali per alimentare la pace e mantenerla. Si è appena riunito il summit dell’Unione africana (Ua), che ha nominato il gabonese Jean Ping, nuovo presidente della Commissione al posto di Alpha Konaré, che aveva accompagnato l’istituzione nel difficile cammino di trasformazione dall’Organizzazione per l’Unione africana all’Ua vera e propria.

Il primo banco di prova di Ping e del continente è quello dei conflitti gemelli Darfur e Ciad. Proprio in questi giorni la capitale del Ciad è stata teatro di scontri violenti, con i ribelli giunti alle porte della capitale ‘Ndjamena. La reazione violentissima del governo ha suscitato un’ondata di rifugiati che hanno abbandonato la città per riparare oltre il vicino confine col Camerun.

Stime di queste ore parlano di un numero di sfollati tra i venti e i cinquantamila che si sono diretti a Kousseri, la prima città raggiungibile. Per offrire solidarietà a Idriss Deby, leader del Ciad dal colpo di stato del 1990, si sarebbero trasferite verso Ndjamena alcune forze del Jem, il Justice and Equality Movement, il principale gruppo militare filo-ciadiano operante nell’Ovest del Darfur, in territorio sudanese. Il Jem non ha partecipato agli accordi di pace del 2006 e sta conducendo in queste settimane una forte iniziativa militare che lo ha portato a conquistare Geneina, la principale città della regione. Proprio approfittando della riduzione delle forze Jem, richiamate verso ‘Ndjamena, il governo sudanese e le milizie irregolari janjavid negli ultimi giorni hanno attaccato e riconquistato alcuni villaggi nella zona, creando un ulteriore movimento di profughi. Stime delle Nazioni Unite parlano di 12.000 persone in arrivo a Birak in Ciad provenienti dal Darfur.

Come si può vedere si tratta di una situazione estremamente tesa che coinvolge in una perversa relazione forze governative e ribelli ai due estremi del territorio del Ciad, in una partita che si gioca sia sul tavolo del Darfur, sia su quello dell’opposizione a Deby. In questo quadro il giornale belga Bulletin e la Taz tedesca hanno raccontato che Deby, che negli ultimi tempi ha fatto arrestare diversi membri dell’opposizione, ha appena ricevuto 82 carri armati fabbricati anni fa in Sudafrica su licenza francese e più recentemente armati in Belgio. L’imbarazzo serpeggia in Europa, dove queste operazioni non sarebbero autorizzate, e in Sudafrica, visto che nel Consiglio d’amministrazione dell’impresa che ha fisicamente realizzato l’operazione siederebbe uno dei fratelli del presidente sudafricano Tabo Mbeki.

Dal 1° gennaio, in Darfur, dovrebbe operare una missione congiunta Onu – Unione africana, tutt’altro che ben accolta in loco. Anche l’Unione europea dovrebbe partecipare con una propria iniziativa di pace. Riusciranno Jean Ping e i diversi mediatori a farsi accettare come operatori di pace in questa situazione in cui nessuno è del tutto estraneo agli eventi e possiede pieno titolo ad esercitare il ruolo dell’arbitro? Manteniamo la speranza, forse un po’ fanciullesca, che gli sforzi di pace possano essere aiutati anche dalla festa del calcio per i «Faraoni», a dimostrare che giocare e sorridere insieme, soprattutto quando si è diversi, è possibile. Ma, come è ovvio, nessuna efficacia potrà esservi in assenza della politica.