Italia

L’Africa ha bisogno di speranza

di Riccardo Bigi

L’Africa non ha bisogno solo di aiuti materiali. Ha bisogno di attenzione, ha bisogno che il mondo si interessi alla sua gente. Ha bisogno di pace, di speranza. Ha bisogno di potersi costruire un futuro». Il vescovo di Lira Giuseppe Franzelli è venuto a Firenze, nei giorni scorsi, per portare a «Terra Futura» la voce della sua diocesi, nel nord dell’Uganda, e di un intero continente.

Monsignor Franzelli era già stato in Uganda, come missionario comboniano, fino al 1987, quando il governo fece chiudere alcune missioni compresa la sua. Fu spostato quindi a Firenze, dove per diversi anni si è occupato della formazione dei postulanti. Sono nati, nel capoluogo toscano, tanti rapporti di amicizia e di collaborazione, che si sono rinsaldati quando tre anni fa è stato nominato vescovo di Lira.

«In Uganda – racconta – c’è una situazione di guerra che va avanti da oltre vent’anni. Una guerra che oppone un gruppo di ribelli, che si è autonominato “esercito di resistenza del Signore”, al Governo. Una guerriglia che ha la sua base nella foresta, e che da lì parte per attacchi improvvisi, sia verso l’esrecito che verso la popolazione civile. Una situazione che l’esrecito regolare non ha saputo, e forse neanche voluto, risolvere. Razzie nei villaggi, rapine, stupri. Si parla di 100mila morti in questi anni, di 25mila bambini rapiti e “arruolati” dai ribelli, di milioni di persone che hanno dovuto lasciare i villaggi e sono state ammassate nei campi profughi, in condizioni disumane. Gente che era già povera, ma che si procurava da vivere con il proprio lavoro: nei campi non hanno niente da fare se non aspettare il cibo che arriva con i camion, finiscono a bere, a litigare, le ragazze si prostituiscono con i soldati per una razione in più».

Una situazione che va avanti da molto, troppo tempo, anche se iniziano a germogliare le speranze di pace: «Da quasi due anni – spiega il vescovo Franzelli – sono avviate le trattative tra governo e ribelli. A poco am poco si è arrivati a un accordo: doveva essere firmato nei giorni di Pasqua ma il capo dei ribelli, su cui pende un mandato d’arresto del Tribunale Internazionale, non vuole presentarsi per firmare. I ribelli in questi ultimi anni hanno subito diverse sconfitte, ma ogni tanto episodi di razzie e attacchi continuano a verificarsi: è un modo per mostrare che sono ancora pericolosi, anche perché evidentemente qualcuno li sostiene e gli fornisce armi».

Quello della giustizia, e di come punire i crimini di guerra, è un problema delicato: «C’è il rischio che l’intervento della giustizia internazionale diventi un freno alla trattativa. Per questo si sta pensando di recuperare forme di giustizia della tradizione africana, in cui è molto importante la dimensione comunitaria: chi ha commesso delle colpe nei confronti della comunità può chiedere di essere riaccolto attraverso un complesso rituale che prevede oltre alla punizione, una pubblica richiesta di perdono. Io e gli altri esponenti delle delle diverse religioni, che partecipano alle trattative in veste di mediatori, siamo favorevoli ad andare in questa direzione». L’Uganda è un paese a maggioranza cristiana (cattolici e protestanti): «C’è il rischio che il fattore religioso, mescolandosi a quello etnico, diventi un pretesto per alimentare le divisioni. La sfida è quella di far diventare l’elemento religioso un fattore di unità e di pace».

Intanto, nell’attesa che la pace diventi duratura, è iniziato il lavoro di ricostruzione. «È un cammino difficile – sottolinea Franzelli – c’è una società che ha respirato violenza e paura, per tanti anni: pensate ad esempio cosa vuol dire accogliere il ritorno dei bambini che erano stati rapiti, e che oggi sono ragazzi e ragazze cresciuti in mezzo ad atrocità terribili. Oggi sono riaperte le scuole, si può viaggiare senza paura delle mine lungo le strade. Ma la lezione che ai giovani è stata data è che chi ha un’arma in mano ha ragione».

Il rapporto di cooperazione missionaria con la diocesi di Firenze, intanto, sta portando un aiuto concreto in questa fase di ricostruzione: «Grazie alla Chiesa fiorentina abbiamo risistemato l’ospedale diocesano, i dispensari che abbiamo nei vari villaggi, abbiamo portato acqua e energia elettrica, tramite genmeratori e pannelli solari. Oggi per esempio, nell’ospedale di Aber, c’è un reparto di maternità dove i nostri bambini possono nascere in buone condizioni igieniche. Ma oltre all’aiuto materiale, questo rapporto di amicizia e scambio tra Chiese sorelle ci ha dato speranza e fiducia nel futuro». Un aspetto particolare di questo legame è quello che riguarda i preti: una sorta di «adozione a distanza» che vede molti sacerdoti fiorentini destinare una somma mensile a un loro confratello africano. «Un gesto molto bello – sottolinea Franzelli – che permette ai nostri preti di svolgere con maggiore serenità il loro ministero. La nostra diocesi conta un milione e mezzo di abitanti, e soltanto 18 parrocchie: un territorio molto vasto in cui, per esempio, non avere i soldi per la benzina significa dover rinunciare a raggiungere i villaggi più lontani che rischiano di non vedere il prete per molto tempo».