Mondo
L’accordo politico in Sud Sudan mette fine a oltre tre anni di guerra
Il 26 aprile, il leader ribelle Riek Machar è arrivato nella capitale Juba per riprendere il ruolo di vicepresidente in un governo di unità nazionale. A guidare l’esecutivo sarà invece il suo rivale Salva Kiir, che lo aveva rimosso dall’incarico a luglio 2013, gettando le basi per il conflitto che sarebbe scoppiato nel dicembre successivo.
Sulla carta era scritta da mesi, ma nei fatti, alla pace in Sud Sudan mancava la conferma finale: quella che non può arrivare dalla diplomazia, ma solo dalle azioni degli uomini. A darla ai sudsudanesi, il 27 aprile scorso è stato un portavoce del governo, Akol Paul Kordit: «È la fine della guerra e l’inizio della riconciliazione», ha detto commentando l’arrivo, avvenuto il giorno precedente, del leader ribelle Riek Machar nella capitale Juba, per riprendere il ruolo di vicepresidente in un governo di unità nazionale. A guidare l’esecutivo sarà invece il suo rivale Salva Kiir, che lo aveva rimosso dall’incarico a luglio 2013, gettando le basi per il conflitto che sarebbe scoppiato nel dicembre successivo.
Richieste di giustizia. Le ostilità hanno provocato migliaia di morti e peggiorato la situazione umanitaria già fragilissima di uno Stato in cui la ricostruzione dopo l’indipendenza (luglio 2011) era appena ai primi passi. Questo è lo scenario che l’arcivescovo cattolico di Juba, monsignor Paolino Lukudu Loro, dopo aver incontrato Machar, ha esortato tutti a lasciarsi alle spalle, per iniziare, invece «una nuova vita di gioia e riconciliazione». Prima ancora di quell’invito era arrivata, però, la reazione della popolazione alla notizia dell’arrivo dell’ex leader ribelle. Anche questa, a suo modo, emblematica della volontà di cambiamento: «Il governo aveva chiarito che non ci sarebbero state celebrazioni ufficiali, ma molti si sono mobilitati comunque, si sono organizzati per raggiungere l’aeroporto e anche lungo le strade il traffico si è bloccato».
A raccontare l’atmosfera di quelle ore nella capitale è Emmanuel Tombe John, giornalista dell’emittente cattolica Radio Bakhita, che da tempo ha aperto i suoi microfoni anche ai cittadini, per dare voce alle loro necessità e aspettative. «Quello che la maggior parte della gente chiede è: giustizia! E se vogliamo che le comunità guariscano, bisogna creare una società giusta», riassume il giornalista. «Giustizia significa anche – specifica – far comprendere ad ognuno quale può essere il suo ruolo all’interno della comunità, per arrivare a una pace che non sia solo quella degli uomini politici».
Autorità morali. Da affrontare restano infatti sia nodi umanitari che personali, come i segni che i traumi della guerra hanno lasciato sui cittadini. «La maggior parte di loro vive da sfollati e va tenuto conto che molti si sono rifugiati anche nei paesi vicini – riassume Tombe John -. Molte famiglie hanno perso i propri cari, molte comunità i loro capi; c’è chi è stato messo in carcere o catturato, chi ha subito la violenza dell’uno o dell’altro gruppo armato e la gente ha ancora paura di tutto questo». L’insicurezza infatti non è scomparsa con la fine ufficiale delle ostilità: nella città settentrionale di Bentiu, un razzo ha colpito anche la base locale delle Nazioni Unite e restano molte le tensioni storiche a livello locale, che le stesse fazioni in guerra avevano tentato di sfruttare. Proprio a questo livello potrà essere preziosa l’opera delle Chiese, che nel Paese godono di grande autorità morale. «Possono rappresentare una forza potente che spinga verso una pace stabile ed elezioni libere e giuste», concorda il giornalista di Radio Bakhita, guardando anche al 2018, anno in cui dovrebbe scadere il mandato del governo transitorio. Il lavoro sul terreno, del resto, è già cominciato, non solo all’interno del Paese, ma anche tra le comunità sudsudanesi all’estero. A Kampala, capitale dell’Uganda, ad esempio, i rappresentanti di varie denominazioni cristiane (tra cui anglicani e cattolici), hanno organizzato una preghiera di riconciliazione all’indomani della formazione del nuovo governo. Dall’incontro è emersa soprattutto la necessità di unire le diverse comunità sul territorio, perché le divisioni etniche e culturali non siano più usate come strumenti del conflitto e i sudsudanesi si percepiscano come «una sola nazione», seguendo l’invito del pastore presbiteriano Stephen Liet Machot. Anche Emmanuel Tombe John, da Juba, sottolinea l’importanza del lavoro di base: «Anche questioni molto piccole possono ingigantirsi – spiega infatti -. Per impedire che succeda, bisogna trasmettere il senso della dignità umana, rendere le persone consapevoli dei loro diritti: così, dopo, potrà arrivare la giustizia».