PremessaQuesta Nota è destinata in primo luogo ai sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, nonché laici impegnati, o pronti a impegnarsi, nella comunicazione della fede cristiana attraverso l’arte. E’ indirizzata anche agli esperti di storia dell’arte e ai responsabili della conservazione e tutela, perché colgano il senso e la funzione che monumenti ed opere d’arte hanno avuto, e tuttora hanno, nella vita della Chiesa. Ed è rivolta infine agli artisti, perché – riflettendo sui valori che la comunità credente ravvisa nell’arte del passato – possano interpretare i temi della fede in Cristo con forme adatte al terzo millennio cristiano in arrivo. L’occasione immediata della Nota è infatti il Giubileo del 2000, che porterà milioni di visitatori in Italia ed anche in Toscana. Vogliamo suggerire alle nostre Chiese una forma nuova di accoglienza per questi “pellegrini” alla ricerca di radici spirituali, che verranno a contemplare le particolari testimonianze della fede cristiana che sono i nostri monumenti. In realtà, però, il Giubileo non sarà che l’accentuazione di un processo già in corso da tempo e che continuerà dopo il 2000. Isolato nella sua “modernità”, l’uomo contemporaneo cerca un senso nella vita e nella storia e – in una “cultura dell’immagine” com’è la nostra – rimane affascinato dalle immagini che la tradizione del passato gli propone. Magari non viene alla Messa, ma entra in chiesa per ammirare l’architettura, gli affreschi, le statue. La presente Nota vuole far tesoro di quest’apertura, indicando come possiamo usare il nostro “affascinante” patrimonio artistico per comunicare le cose in cui crediamo, la Verità del Vangelo di Gesù Cristo. Stilata nel clima positivo della nuova Intesa tra il Ministro per i Beni Culturali ed Ambientali e il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche (1996), la Nota si inserisce poi in una serie di iniziative chiarificatrici a livello nazionale e regionale, tra cui il Documento CEI del 1992, “I beni culturali della Chiesa in Italia”, e il Convegno Nazionale organizzato dalla CEI a Siena nel 1993 sul tema “Cattedrali, chiese, abbazie e monasteri nel giro turistico: quale accoglienza, quale pastorale?”. Riattiva anche, a distanza di decenni, la preoccupazione e l’impegno del Concilio Plenario Etrusco, che già nel 1933 trattava alcune delle tematiche qui esplorate, e della più recente Normativa CET per la difesa delle opere d’arte, del 13 febbraio 1979. E riflette esperienze recenti, in diverse diocesi, nel campo dell’accoglienza e della catechesi attraverso l’arte, sovente in collaborazione con associazioni e gruppi non strettamente ecclesiali, quali Ars et Fides e Terzo Millennio. Infine, questa Nota è pastorale e toscana: anche in ricordo del nostro grande Santo-Artista, Beato Giovanni da Fiesole, chiamato l’Angelico, queste pagine parlano dell’arte della nostra Regione e non di altre terre, soprattutto della grande tradizione figurativa per cui la Toscana è conosciuta nel mondo intero, e che di fatto rende più facile il compito di comunicare i contenuti della fede. Sarebbe stato utile, forse, estendere l’approccio sviluppato qui ad altre forme creative: alla musica, alla poesia e prosa, alla danza e al teatro. Ma nello spazio di un breve documento come deve essere la Nota, ci è parso preferibile trattare almeno una categoria in profondità, piuttosto che toccare più materie in modo superficiale. Se poi, da questa prima e parziale articolazione, nasceranno altri testi o un Direttorio delle Arti, la presente Nota avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi. Il giorno che abbiamo scelto per la pubblicazione della Nota Pastorale, la seconda Domenica di Quaresima – Domenica della Trasfigurazione, nell’antica tradizione liturgica della Chiesa – può servire ad indicare la logica che ci ha guidati: condotti dal Signore sul monte, Pietro, Giacomo e Giovanni videro Dio presente nell’uomo Gesù, mentre Egli parlava con i rappresentanti della Tradizione del passato, Mosè ed Elia. Così anche nell’arte toscana, crediamo: sotto il “naturalismo” perfezionato dai nostri pittori e scultori, la divinità di Cristo diventa visibile, in un fecondo dialogo col passato. Ascoltare la testimonianza, godere della visione, contemplare Dio rivelato nella materia, può aiutare a preparare la Pasqua del Signore. Prima Parte L’ARTE E LA MISSIONE DELLA CHIESA1. La vita si è fatta visibileLa Chiesa crede che, nell’Incarnazione di Gesù Cristo, l’invisibile vita di Dio sia diventata “visibile” agli uomini. Crede inoltre che la testimonianza resa a questa vita “che era presso il Padre e si è fatta visibile” serva ad attirare gli uomini nella comunione ecclesiale e trinitaria. Tale fede invita a una seria riflessione sul ruolo delle arti figurative e dell’architettura nell’evangelizzazione. Il messaggio evangelico infatti non è solo verbale. “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (…) che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza2 (Eb. 1, 3). “Chi vede me, vede il Padre” (Gv. 14, 9), afferma il Signore: cioè, nella persona di Cristo rifulge in forma sensibile l’intera realtà divina, penetrando il Vangelo cristiano di un insostituibile contenuto visivo. Certo, “Dio nessuno l’ha mai visto”, come c’insegna San Giovanni; ma l’Evangelista aggiunge subito che, venendo nel mondo, il Figlio unigenito “lo ha rivelato” (Gv. 1, 18). Con la sua vita, morte e risurrezione Cristo ha “narrato” il Padre – ha “illustrato” il suo amore – con sì perfetta fedeltà “ritrattistica” che la Lettera ai Colossesi può affermare semplicemente che: “Egli è immagine (eikon) del Dio Invisibile” (Col. 1, 15). 2. Un Vangelo visivoIl Verbo resosi visibile diventò pertanto “icona”, e l’importanza delle immagini nella tradizione liturgica e devozionale dei cristiani va colta in questa prospettiva. Il messaggio visivo del Vangelo – spontaneamente e quasi necessariamente ha generato forme espressive visive, cui del resto la Tradizione e il Magistero hanno attribuito singolare profondità teologica. Citando l’opera patristica che meglio riassume il pensiero antico sull’argomento, il “Discorso sulle immagini” di San Giovanni Damasceno, Giovanni Paolo II scrisse nel 1987: “L’arte della Chiesa deve mirare a parlare il linguaggio dell’Incarnazione ed esprimere con gli elementi della materia, Colui che si è degnato di abitare nella materia e di operare la nostra salvezza attraverso la materia”. Non è quindi solo questione di una “Biblia pauperum”, di immagini didattiche che, in circostanze particolari, sostituiscono il testo scritto (come la nota lettera di San Gregorio Magno al Vescovo Sereno sembra suggerire). Nella concezione cattolica, l’immagine può toccare l’intima realtà della persona: “La nostra tradizione più autentica, che condividiamo pienamente con i fratelli ortodossi,” dice Giovanni Paolo II, “c’insegna che il linguaggio della bellezza, messo al servizio della fede, è capace di raggiungere il cuore degli uomini, di far conoscere loro dal di dentro Colui che noi osiamo rappresentare nelle immagini, Gesù Cristo”. In un documento parallelo, ugualmente del 1987, il Patriarca Dimitrios I di Costantinopoli arriva ad affermare che, nella tradizione ortodossa, “l’immagine (…) diventa la forma più potente che prendono i dogmi e la predicazione”. 3. Lex orandi, lex credendiNell’una e nell’altra tradizione – nella Chiesa d’Oriente come in quella d’Occidente – l’uso di immagini sacre nel contesto della vita liturgica è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all’Incarnazione di Cristo, sussiste tra “segno” e “realtà”, all’interno dell’economia sacramentale. Tale rapporto, invero, traspare in tutte le opere che l’uomo associa al culto divino: dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L’uso delle cose nella liturgia della Chiesa rivela ed attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all’uomo e per mezzo dell’uomo a rendere gloria a Dio. Per un processo misterioso e nel contempo semplice, questa “rivelazione” diventa parte integrante della fede vissuta, specialmente nell’ambito della celebrazione e del culto eucaristico: trovando Dio presente nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa materiale, diventa ormai (almeno tendenzialmente) “ostensorio”, come ogni “vedere” umano è ormai chiamato a farsi contemplazione adorante. Tuttavia il soggetto dell’esperienza estetica, come dell’esperienza culturale, rimane l’uomo: è a lui che parlano i colori e le forme, il fruscio della seta, lo scintillio dell’oro, lo spazio “mistico” o “razionale” dell’architettura dei diversi periodi. Se, dagli oggetti e dagli spazi che circondano la sua preghiera, l’uomo impara a offrire al Creatore tutta la sua vita sensoria, è però soprattutto dall’arte figurativa che si sente interpellato nella sua vita spirituale, come un essere libero e ragionevole, capace di entrare in rapporto, amare, donarsi. Le raffigurazioni di Cristo, di Maria e dei santi che l’uomo vede nel contesto liturgico gli comunicano i contenuti della fede e il senso dei riti con forza e chiarezza come poche altre forme espressive. 4. La riscoperta dell’icona cristianaGiovanni Paolo II sottolinea la necessità di una rinnovata attenzione al ruolo delle immagini nella vita della Chiesa, puntualizzando che “”a riscoperta dell’icona cristiana aiuterà a prendere coscienza dell’urgente bisogno di reagire contro gli effetti spersonalizzanti e spesso degradanti delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita, nella pubblicità e nei media”. In una situazione di crescente secolarizzazione della società, – che così diventa estranea ai valori dello spirito, al mistero della nostra salvezza in Gesù Cristo e alla speranza di un mondo a venire – l’arte della Chiesa “ci dà accesso alla realtà del mondo spirituale ed escatologico”, afferma il Pontefice. Un altro papa – Paolo VI, nel messaggio agli artisti pronunciato l’8 dicembre 1965, a chiusura del Concilio Vaticano II – suggerisce sia l’origine sia il fine di quest’apertura alle realtà spirituali offerte dall’arte. A nome dei Padri Conciliari, con tono commosso, Papa Montini implorava gli artisti di non rifiutare di mettere il loro talento al servizio della verità divina e a non chiudere il loro spirito al soffio dello Spirito divino. “Questo mondo nel quale viviamo”, diceva, “ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Ecco dunque alcuni “vantaggi” che si possono sperare da una riscoperta dell’arte cristiana all’insegna della verità e sotto l’influsso dello Spirito: un antidoto alla spersonalizzazione e abbrutimento dell’esperienza visiva, ormai ineludibile nella nostra cultura; una riaffermazione dei valori spirituali inerenti al mistero cristiano; la visione “eloquente” del mondo a venire; una gioia interiore duratura; il senso di una continuità nel tempo o, meglio, la continuità del senso da un tempo ad un altro, dal passato al presente; un filo, un anello di collegamento tra vecchi e giovani: un amore del bello condiviso da diverse generazioni che “le fa comunicare nell’ammirazione”. Nella vita della comunità credente, l’arte a servizio del culto ci conduce insieme sul monte e “trasfigura” i nostri occhi, per così dire. Non aggiunge un contenuto nuovo al mistero già comunicato con altri mezzi, ma – come la Trasfigurazione del Signore sul Tabor – svela per un attimo la gloria latente sotto l’aspetto materiale dei contenuti della fede. 5. Una nota sull’arte nella prospettiva del 2000L’avvicinarsi del nuovo millennio e la ricorrenza del Giubileo rendono urgente una simile “riscoperta” e rivalorizzazione dell’arte della Chiesa. L’ansia di preservare, per il futuro, il meglio di un passato già minacciato dai traumatici mutamenti a ogni livello della vita del nostro secolo e il desiderio di trovare le radici profonde della nostra esperienza comune, ci riportano alla straordinaria testimonianza di valori e di umanità “incarnata” nell’architettura, nella scultura e nella pittura della tradizione cristiana. L’anno giubilare poi – che, nella visione biblica, deve essere una liberazione e un ritorno – similmente invita alla riscoperta dell’arte della Chiesa. “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia” (Lv. 25, 10). Ognuno cioè potrà riappropriarsi dell’eredità dei suoi padri, riconoscersi uguale agli altri nella speranza, nella gioia e “nell’ammirazione”; ognuno potrà incominciare a liberarsi dalla banalizzazione totale di uno tra i più importanti ambiti dell’esperienza individuale e collettiva, quello visivo: liberarsi dall’immagine pubblicitaria condizionante, dall’immagine frammentaria dispersiva, dall’immagine pornografica distruttiva. Come Vescovi cui è affidata la responsabilità delle Chiese particolari della Toscana sentiamo il dovere di intervenire in questa materia. Chiamati a insegnare la Parola, desideriamo offrire delle indicazioni per l’esegesi del Vangelo visivo scritto attraverso i secoli nel “volgare” eloquente di questa regione. Chiamati a guidare la preghiera, vogliamo orientare i fedeli alla contemplazione estatica attraverso opere ispirate; chiamati a formare gli uomini nella vita cristiana, vogliamo definire l’equilibrio, nel presente come in passato, tra componenti economiche e spirituali, in queste opere generate dalla fede; il rapporto, cioè, che sussiste, ad esempio, tra fruizione turistica e nuova evangelizzazione (analogo, per la sua struttura, al rapporto sussistente nella stessa genesi dell’opera, tra l’uso dei mezzi materiali e la comunicazione di un messaggio spirituale). Chiamati a promuovere l’ecumenismo e la comunione, vogliamo infine preparare i credenti a vedere e a mostrare agli altri – ai “pellegrini giubilari”, anche se di altre confessioni cristiane o di altre religioni – un patrimonio comune a tutti e che tocca ogni uomo. Nel nostro romanico e in maniera eccelsa nell’arte del ‘300 e del ‘400 toscano, credenti e non credenti riconoscono un linguaggio che li accomuna, un’eredità fraterna; anche questo costituisce una “liberazione” e un “ritorno”. 6. Imago dei, imago hominisSoprattutto, come maestri della fede in Gesù Cristo, nell’occasione di un Giubileo dal “carattere spiccatamente cristologico” (come Giovanni Paolo II lo ha definito nella Tertio Millenio Adveniente 40), “che celebrerà l’Incarnazione del Figlio di Dio, mistero di salvezza per tutto il genere umano”, vogliamo riproporre l’immagine sconvolgente e salvifica, consolante ed edificante dell’umanità di Dio (cfr. Tito 3, 4 nella versione della Vulgata) rivelata in Cristo: tema centrale dell’arte della Chiesa, trattato con ineguagliabile eloquenza dai maestri toscani. In opere innumerevoli, tra cui capolavori di Nicola e Giovanni Pisano, Duccio di Boninsegna e Giotto, di Donatello, Jacopo della Quercia, Masaccio, Beato Angelico, Piero della Francesca, Botticelli, Verrocchio, Leonardo e Michelangelo, credenti e non credenti possono cogliere l’umanesimo inerente alla fede cristiana, secondo cui, facendosi uomo nel grembo della Beata Vergine, “il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”. L’invito a contemplare Cristo nell’arte è poi un invito alla comunione. Immagine dell’invisibile Dio, egli è l’esemplare, il “modello” al quale i cristiani devono essere resi conformi, interiormente rifatti in un processo creativo nuovo che ha come obiettivo una comunità “estratta dalla cava” e “tagliata nella roccia” che è Abramo (cfr. Is. 51, 1-2): un popolo nuovo “scolpito” dall’amore del Padre. “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef. 2, 10). Seconda Parte L’ARTE SACRA E L’ESPERIENZA ECCLESIALE7. L’arte e la parolaL’arte cristiana mette il credente a contatto con la parola di Dio in maniera diretta ed altamente ecclesiale. I “soggetti” illustrati sono, per la maggior parte, biblici, fino al punto che San Gregorio Magno affermava: “ciò che lo scritto ottiene a chi legge, la pittura fornisce agli analfabeti che la guardano”. Il settimo Concilio Ecumenico, Nicea II (787), ha perfino formulato una “norma scritturistica” per l’arte a servizio del culto cristiano, desunta dal versetto 9 del salmo 47: “sicut audivimus, sic vidimus in civitate Dei nostri” – “come abbiamo udito, cosi abbiamo visto nella città del nostro Dio”. Nella città del nostro Dio: l’iconografia “scritturistica” dell’arte cristiana ha dunque un carattere ecclesiale: trova riscontro agiografico nella memoria collettiva della comunità ascoltatrice della Parola. Gli eventi e i personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento più raffigurati e lo stile sviluppato per la loro raffigurazione corrispondono, infatti, alle esigenze della comunità credente nei diversi momenti e luoghi della sua storia. La liturgia in modo particolare ha determinato la scelta dei soggetti biblici: l’iconografia cristiana si concentra infatti intorno ai testi relativi ai periodi forti dell’anno liturgico: Natale e Pasqua. Anche quando il soggetto non è strettamente biblico – nel caso di raffigurazioni dell’Assunzione o dell’Incoronazione di Maria, ad esempio – gli elementi iconografici spesso riportano ai testi biblici adoperati nella liturgia per esplicitare il senso dell’evento: la veste luminosa della Vergine, “donna vestita di sole” (Apoc. 12,1), o l’apparato regale della scena dell’Incoronazione, che evoca la poesia del Salmo 44,14-15, “la figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito. E’ presentata al re in preziosi ricami…”. Alcuni tra i soggetti più frequenti dell’arte cristiana non fanno altro, infatti, che visualizzare il senso ecclesiale dei testi biblici usati nella liturgia. La Madonna col Bambino fra Santi, ad esempio – forse il soggetto più comune in tutta l’arte cristiana, dal medioevo in poi – riporta alle immagini letterarie usate nell’Ufficio della Beata Vergine Maria, relative alla sua maternità non come un fatto individuale, ma sociale: testi che parlano cioè della “città santa”, “madre” di un popolo che in essa trova le sue sorgenti e al quale Dio “annunzia la sua parola”: una città “salda e compatta” cui si accede con gioia, e su cui si domanda pace, pensando ai fratelli e agli amici (cfr. Salmi 147, 45, 86, 121). Pregare l’Ufficio o assistere all’Eucaristia davanti ad immagini così impregnate di senso può costituire, nel contempo, un’esperienza di approfondimento biblico e un momento di formazione comunitaria. 8. Il Dio Creatore e la creatività dell’uomoLa Bibbia presenta Dio stesso come un artista: Deus artifex, creatore sottilissimo di opere stupende, cosi che l’uomo esclama infine, “quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra e piena delle tue creature” (Salmo 104, 24). Ma anche l’uomo è “creativo”: fatto “a immagine e somiglianza di Dio” (Gen. I, 27), e artista pure lui; fa cose belle per sua natura. La spinta umana verso una creatività analoga a quella divina costituisce in pratica l’ambito del rapporto tra creatura e Creatore. Nelle scritture, sia ebraiche che cristiane, quando Dio si rivela agli uomini, sovente essi rispondono col “fare qualcosa”, erigendo un monumento come segno permanente dell’incontro. Così dopo il sogno in cui vide il Signore, Giacobbe “si alzò, prese la pietra che s’era posta come guanciale e la eresse come una stele” (Gen. 28,10-22); nello stesso modo, dopo la visione di Gesù trasfigurato sul Tabor, l’Apostolo Pietro desiderò fare “tre tende”: una per Gesù, una per Mosè e una per Elia, per prolungare la gioia del momento (Lc. 9, 33). Nella Bibbia, l’umana creatività è la risposta più naturale all’incontro col Dio Creatore. Tale creatività – che si può esprimere in molti modi, come poesia o musica, come danza, scultura o architettura – è una “risposta” essenzialmente religiosa, per la quale la terra si “rilega” al cielo, l’uomo a Dio. La stele eretta da Giacobbe a Betel segnò infatti il luogo dove questi aveva visto una scala che poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo, e sulla quale gli angeli di Dio salivano e scendevano (Gen. 28,12); e similmente le tende volute da Pietro avrebbero segnato un punto di convergenza: il posto dove Pietro, Giacomo e Giovanni videro un uomo, Gesù, cambiare d’aspetto e parlare con Mosè ed Elia – dove videro insomma ciò che era stato promesso a Natanaele: “il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv .1,51). L’opera fatta a ricordo di simili esperienze e pertanto un’opera di sintesi suprema, una scala paradisi in cui i poli opposti si congiungono, i limiti vengono superati, il tempo e l’eternità s’incontrano. Questa “sintesi” avviene in maniera misteriosa, come ogni artista sa: non fa parte del mondo normale dei progetti e delle decisioni consce dell’uomo. “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli” (Lc. 9,32), mentre Giacobbe s’era già coricato, e vide collegarsi cielo e terra nel sogno. Svegliatosi poi disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo” (Gen. 28, 16-17). Il contesto creativo è quindi numinoso: lo stato d’animo idoneo è il rapimento, che può esprimersi anche come stanchezza, sfinimento, quando – venute meno le proprie forze -l’uomo si abbandona e sogna, pur rimanendo sveglio. L’uomo deve essere disorientato per creare, deve trovarsi su un terreno nuovo, meraviglioso, che gli sembri “la casa di Dio”, “la porta del cielo”. Come Pietro sul Tabor, l’artista si deve sentire avvolto in una nube: deve “avere paura”. Non saprà quel che dice, eppure chiederà di prolungare l’istante, costruendo qualcosa – “tre tende”- solo perché “è bello per noi stare qui” (Lc. 9, 32). E’ questa l’atmosfera in cui l’arte si fa e si recepisce: l’istante di sintesi creativa stimolata dalla voce uscita dalla nube. In analogia con il testo ispirato, anche l’arte ci espone all’impatto dell’incontro col sovrannaturale: anche l’arte comunica la gioia di chi, dal mezzo del “sonno” e del “timore”, afferma che “è bello per noi stare qui”. 9. L’arte e la preghieraGià il rapporto con la Parola, nella prospettiva liturgica, e quello con la sorgiva creatività dell’uomo indicano la finalita ultima delle opere d’arte a servizio della Chiesa: un contatto con Dio che si può caratterizzare come “preghiera”, “contemplazione” e “adorazione”. Anche Gregorio Magno, difensore della funzione didattica dell’immagine nel contesto ecclesiale, insiste che i fedeli debbano alla fine passare dalla visio all’adoratio. “Altro è adorare un dipinto, altro imparare da una scena rappresentata in un dipinto che cosa adorare. (…) La fraternità dei presbiteri è tenuta ad ammonire i fedeli affinché questi provino ardente compunzione davanti al dramma della scena raffigurata e così si prostrino umilmente in adorazione davanti alla sola onnipotente Santissima Trinità”. Nel medesimo spirito, Giovanni Damasceno dirà: “la bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. E’ una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna sprona il mio cuore a rendere gloria a Dio”. Appellandosi all’insegnamento del Secondo Concilio di Nicea, il Catechismo della Chiesa Cattolica parla delle sacre immagini nel capitolo dedicato, appunto, alla preghiera liturgica: “La celebrazione sacramentale del mistero Pasquale”. All’affermazione di Nicea II, che “le venerande e sante immagini (…) debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio”, il Catechismo aggiunge che “la contemplazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici, entra nell’armonia dei segni della celebrazione in modo che il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima nella novità di vita dei fedeli”. A descrivere il processo interiore per cui i “segni” contribuiscono alla conversione del cuore è Sant’Agostino. “La presentazione della verità mediante segni ha il potere di accendere ed accrescere quell’ardente amore per il quale noi, come fiamme che obbediscono alle leggi della natura, gravitiamo verso l’alto e contemporaneamente verso le profondità, cercando un luogo di riposo. Presentate in questo modo, le cose ci commuovono ed attivano le nostre emozioni molto di più che se venissero esposte con la mera ragione. (…) Credo che le emozioni vengano accese meno facilmente mentre l’anima è assorta nelle cose materiali, ma quando essa viene condotta a segni materiali delle realtà spirituali, e da questi poi verso le cose che i segni rappresentano, allora l’anima si rafforza nell’atto stesso di passare dagli uni alle altre, appunto come la fiamma di una fiaccola che, muovendosi, arde sempre più intensamente”. 10. Stile e spiritualità Nella storia dell’arte cristiana, tale oscillazione tra segno materiale e realtà spirituale si è espressa in diverse maniere. Già nei primi secoli di vita della Chiesa, accanto al naturalismo ereditato dall’arte ellenistica e romana, si è sviluppato un linguaggio simbolico analogo – nel suo assetto formale – alla mistagogia che caratterizza l’insegnamento dei Padri: un’arte “aniconica” o non figurativa, basata sull’abbinamento di forme, colori e materiali in configurazioni astratte, che non deve essere scambiata per mera “decorazione”. Nell’arte della Chiesa d’Oriente, legata a questo primo “stile” cristiano, il rapporto tra segno materiale e realtà spirituale verrà evidenziato con un linguaggio stilistico che relativizza l’aspetto “naturale” delle cose. Dei particolari esteriori di un soggetto, l’icona bizantina tipicamente “conserva solo ciò che è strettamente necessario per riconoscere la storicità di un fatto o la dimensione fisica della persona di un santo”, scrive Dimitrios I: “e questo poi con tratti totalmente purificati e dematerializzati, appartenenti alla sfera celeste piuttosto che all’ambito della natura”. In Occidente, invece – come conferma la Sacrosanctum Concilium, 123 – “la Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca”. A differenza dell’immagine religiosa orientale “purificata” e “dematerializzata”, la tradizione latina, erede del naturalismo dell’arte greco-romana, ha sviluppato un linguaggio visivo più aderente all’esperienza sensoria del soggetto umano: un linguaggio contrassegnato da elementi realistici quali l’anatomia e la prospettiva lineare. Ciò non implica però una diminuzione del ruolo spirituale dell’opera d’arte nella vita di preghiera del singolo fedele e della comunità. Al contrario, il naturalismo stilistico che nasce nel medioevo europeo ed italiano (e toscano in particolare) riveste un carattere francamente mistico. La riscoperta del corpo umano e del mondo naturale, nella pittura e scultura delle generazioni che vissero la prima diffusione della spiritualità francescana, va interpretata nella stessa chiave in cui Tommaso da Celano spiega l’amore del Poverello d’Assisi per le cose di questo mondo: “In ogni opera loda l’Artefice, tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore e, attraverso questa visione letificante, intuisce la causa e la ragione che le vivifica (…). Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono”. In quest’ottica, il realismo più o meno ideale che, da Nicola Pisano e Giotto, a Donatello, Masaccio, Leonardo e Michelangelo, trasforma l’arte europea, ha un contenuto altamente contemplativo. Non a caso il primo utilizzo sistematico e monumentale della prospettiva razionale del Brunelleschi avviene in un’immagine mistica: la Santissima Trinità affrescata da Masaccio tra il 1425 e il 1428 in Santa Maria Novella, a Firenze. Situando l’ineffabile mistero teologico in uno spazio matematicamente misurabile, l’opera comunica la “reale presenza” nel nostro mondo delle realtà divine. Ne sorprende che la medesima costruzione prospettica venga riutilizzata per tutto il ‘400 toscano nel disegno di tabernacoli eucaristici: il mistero del Dio entrato nel tempo e nello spazio umano implica precisamente una santificazione di tutta la nostra esperienza spazio-temporale. Come dice un teologo moderno: “Nell’incarnazione di Cristo la profondità naturale della realtà simbolica di tutte le cose, in sé limitata a questo mondo o con al massimo una “trascendenza” naturale verso Dio, ha ricevuto – come dato ontologicamente reale – un’estensione infinita, dal momento che tale realtà è diventata una determinazione dello stesso Logos o del suo ambito. Ormai ogni realtà data all’uomo da Dio, laddove non è stata degradata da strumentalizzazioni umane o da scopi meramente utilitaristici, comunica molto più che il suo significato proprio. A modo suo, ogni singola realtà è un’eco e un’indicazione di tutta la realtà”. 11. L’arte e la vitaQuest’arte vicina all’esperienza comune degli uomini, che però media il mistero del “Santo in mezzo a noi” (Os. 11, 9), ha un rapporto speciale con la vita delle persone. Leon Battista Alberti, architetto e teorico del ‘400, dice a proposito della nuova pittura “realista” della sua epoca: “muoverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio movimento d’animo. Interviene la natura, quale nulla più che lei si trova rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole”. Si tratta di un rapporto di esemplarità, operativo nell’arte toscana sin dai tempi di San Francesco (si pensi al monumentale gruppo ligneo della Deposizione nel Duomo di Volterra, degli anni venti del 1200) e che ne segna lo sviluppo fino all’epoca moderna. Ne può essere considerato insignificante l’impatto “esemplare” delle immagini sulla vita, sulle decisioni, sulla stessa libertà del credente, se la Prima Lettera di San Pietro dichiara che “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1 Pt 2, 21), e San Paolo a più riprese invita i credenti a farsi suoi imitatori, persuaso di non essere più lui che vive, “ma Cristo vive in me” (Gal. 2,20). Altrove infatti l’Apostolo ci assicura che, nel Giudizio, Cristo sarà “glorificato nei suoi santi e (…) riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto” (2 Ts. 1, 10). La Chiesa può dunque proporre, attraverso l’immediatezza dell’immagine “naturale”, l’esempio della vita del Signore, della Beata Vergine, dei santi. Così l’immagine entra a far parte dei mezzi di cui i cristiani si servono per comunicare la verità che hanno ricevuto: il nuovo Catechismo Universale infatti dedica una parte del capitolo sull’ottavo comandamento al tema “Verita, bellezza e arte sacra”, un paragrafo che segue immediatamente altri sul “vivere nella verità”, “rendere testimonianza alla verità”, e “l’uso dei mezzi di comunicazione sociale”. In ogni periodo della sua storia, in effetti, l’arte cristiana è stata concepita come un “mezzo di comunicazione” atto a “rendere testimonianza” al patrimonio di cui sono depositari coloro che “vivono nella verità”. In questa luce, la comunicazione della fede attraverso l’arte si rivela un ministero e una testimonianza: illustrare la verità che viviamo, attraverso opere da essa generate, è un modo eccellente di mostrarci “pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi” (1 Pt. 3, 15). Far vedere Cristo che si offre sulla croce, Maria che ascolta l’Angelo con fede umile, i santi in cui è evidente il dono dello Spirito su “ogni carne”, significa comunicare la fede della Chiesa, la vita eterna che ora si è fatta visibile nell’ordinarietà del tempo e dello spazio. Per i fedeli, costituisce un “formidabile strumento di catechesi” (come Giovanni Paolo II ha ricordato ai Vescovi della Toscana durante la visita ad limina del 1991), e per coloro che stanno ancora fuori della vita ecclesiale, costituisce un potente mezzo di evangelizzazione, mediando culturalmente il contenuto umano del messaggio evangelico. In quest’ottica, nell’imminenza di un Giubileo che porterà in Toscana milioni di persone, si possono forse armonizzare i due obiettivi articolati in un recente documento della CEI su “I beni culturali della Chiesa in Italia”: da una parte, “un’accoglienza generosa ed intelligente”, atta “a soddisfare le legittime esigenze dei visitatori”, e, dall’altra, “l’attenzione a tutelare e conservare i beni culturali a edificazione della comunità cristiana cui appartengono, e la preoccupazione a non alterare la loro finalità riducendoli a semplici beni di consumo turistico”. La presenza dell’accompagnatore “testimone” inviterà spontaneamente a un comportamento rispettoso. 12. L’arte e la comunioneNella semplicità di una pieve romanica, come nella dolcezza di un Cristo del Beato Angelico o nel dramma interiore delle statue di Donatello e Michelangelo, ogni credente e, invero, ogni uomo, credente o no, può cogliere aspetti significativi della propria ricerca spirituale. Attraverso il tempo, e al di là delle divisioni culturali e storiche che ci separano, quest’arte cosi umana rivela una sottostante comunione, insita nella nostra natura, primo dono del Creatore. Invitando vicini e lontani a contemplare i racconti evangelici e vetero-testamentari e le vite dei santi, illustrate nei mosaici ed affreschi, nelle vetrate, pale d’altare e statue, compiamo ciò che i Padri del Concilio Vaticano II prospettarono quando, nella Gaudium et spes, scrissero che la Chiesa invita perfino gli atei a voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto e li invita “cortesemente” – humaniter nel testo latino – come un uomo parla ad un altro uomo in base alla comune esperienza umana. Con i cristiani di altre confessioni, come con i non cristiani, la Chiesa si può permettere questa cortesia perché – come dice il paragrafo 21 della stessa Costituzione Conciliare – essa “sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana, e così ridona la speranza a quanti disperano ormai di un destino più alto”. Attraverso l’arte delle nostre chiese siamo chiamati quindi a soddisfare non solo “le legittime esigenze” turistiche del visitatore, con un’adeguata introduzione storico-artistica, ma “le aspirazioni più segrete del cuore umano”: così segrete che sovente il visitatore non le avverte, ma ciononostante reali: l’aspirazione a trovare un senso nella vita, trovare significato nella storia, trovare la comunione con i prossimi e con i lontani, nello spazio e nel tempo, comunione con chi ci ha preceduto, con il nostro passato. A questo scopo, vanno coinvolti nell’impegno dell’evangelizzazione attraverso l’immagine gli stessi artisti, da sempre associati alla missione della Chiesa in una “alleanza feconda fra tutte”, come Paolo VI l’ha definita. Sia nell’aiuto che gli artisti ed architetti possono dare per capire le opere del passato, sia nelle loro proposte per opere nuove atte a mediare il mistero dell’esperienza cristiana, cogliamo il dinamismo della creatività al servizio della fede. Guidandoci a meditare “perché” un architetto abbia progettato lo spazio in una certa maniera, e “perché” lo scultore abbia modellato in un certo modo le forme del corpo di Cristo in una Pietà, e “perché” il pittore abbia scelto un determinato colore per esprimere la gioia di una Madonna, gli artisti rivelano per analogia la struttura della creatività personale, il modo cioè in cui ogni uomo e donna “progetta”, “modella”, “colora” la propria vita per meglio servire Dio e il prossimo. L’artista “è il veicolo, il canale, l’interprete, il ponte tra il nostro mondo religioso e spirituale e la società”, come affermava Paolo VI. “Noi onoriamo grandemente l’artista”, continuava il Pontefice, “precisamente perché egli compie un ministero parasacerdotale accanto al nostro. Il nostro ministero è quello dei misteri di Dio, il suo è quello della collaborazione umana che rende questi misteri presenti ed accessibili”. “E la vostra arte”, concludeva Papa Montini, parlando direttamente agli artisti, “è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”. 13. L’arte e la fede in CristoIn un’era come la nostra, contrassegnata dalla cultura dell’immagine effimera e da interessi commerciali, c’è un rischio legato alla rivalutazione dell’arte della Chiesa. Tra le preoccupazioni della CEI, in effetti, vi è quella di non alterare la finalità dei monumenti religiosi, “riducendoli a semplici beni di consumo turistico”. Il rischio si estende poi dal turista al fedele stesso, che tenderà a vedere gli edifici e le opere d’arte nell’ottica culturale vigente. Bisogna resistere a ogni riduzione dei contenuti dell’opera d’arte religiosa e a ogni forma di “scoraggiamento didattico”. Similmente, bisogna resistere al tecnicismo odierno, incline a una presentazione che antepone l’opera materiale al suo significato ultimo. Non è facile: davanti al visitatore o parrocchiano curioso di sapere gli effetti dell’inquinamento sulle statue o l’esito di un restauro, il discorso iconologico dapprima deluderà. Bisogna aver ben chiaro il messaggio di fondo che l’arte della Chiesa ha sempre voluto comunicare. Il Signore stesso ci insegna questo messaggio. “Un giorno, mentre istruiva il popolo nel Tempio ed annunciava la parola di Dio, (…) mentre alcuni parlavano del Tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse: Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta” (Lc. 20,1; 21,5-6). Non che Gesù volesse sminuire la bellezza del Tempio: come ebreo piissimo, con un forte senso della storia del suo popolo, doveva amare il luogo simbolico dell’elezione d’Israele. Ma come Figlio di Dio mandato a portare molti fratelli nella vera casa del Padre, condannò ogni esteriorità che collocasse l’ombra al posto della verità. E come Verità ultima della storia in persona, il Signore enunciava un fatto semplice, che tutti sanno: nessuna costruzione umana è eterna e, se Dio non edifica la casa, invano faticano i costruttori. Né fedeli né visitatori delle nostre chiese fanno dell’arte un idolo, anche se ne sono cultori e talvolta esperti. Sanno che, nella vita, occorre qualcosa di più: sanno che la bellezza estetica non basta e non basta la storia di popoli e città. Oltre la storia, al di là dell’arte, chi viene nelle nostre chiese vuol sentire di più, vedere di più. E’ questa infatti la più “legittima esigenza” del visitatore come anche del credente davanti all’arte: vedere e sentire qualcosa “di più”. Dietro alle belle pietre e ai doni votivi dei nostri templi noi siamo chiamati a far vedere il vero Tempio, Gesù Cristo crocifisso e risorto. Attraverso i “beni culturali” dei nostri monumenti, noi dobbiamo rivelare i beni dello spirito e una “Bellezza tanto antica quanto nuova” dentro l’uomo e che l’uomo incessantemente cerca: Bellezza che lo chiama, che lo illumina, che lo inebria, che lo tocca infondendo pace. Perché, anche se gli edifici e le suppellettili sono destinati a scomparire, ciò che queste opere significano resterà: “i beni, quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo di nuovo, purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno ed universale”. Terza Parte L’ARTE TOSCANA E LA CATECHESI14. Letture dell’arte in ToscanaL’arte in Toscana si presta ad una lettura in chiave religiosa. Da una parte, maestri formati od operanti in questa regione hanno creato alcuni tra i capolavori più celebri d’iconografia cristiana a livello mondiale; d’altro canto, la tradizione storiografica fiorita in Toscana dal ‘300-‘400 in poi, permette, come in poche altre regioni d’Europa, di documentare il rapporto del messaggio spirituale con la vita realmente vissuta dai committenti delle opere e qualche volta perfino dagli artisti. Dai “commentari” e dalle “vite” degli artisti, è possibile ricostruire il contesto vitale di cui gli edifici e le opere sono venerande testimonianze: un contesto d’intensa religiosità ecclesiale, monastica, conventuale e popolare in cui gli artisti vennero direttamente coinvolti (si pensi a Lorenzo Monaco, Beato Angelico, Fra Bartolomeo e alle “conversioni” di Sandro Botticelli e Michelangelo). La lettura cristiana dell’arte ha una sua tradizione, di grande suggestione, anche se trascurata dalla storiografia moderna. Già nel ‘500, l’aretino Giorgio Vasari, nella sua Vita di Michelangelo, interpretò lo sviluppo delle arti in Toscana come parte del piano divino, analogo nel suo evolversi alla stessa storia della salvezza. La sua presentazione di Michelangelo Buonarroti come “l’inviato da Dio” che colma la secolare ricerca di un “popolo eletto” nelle cose d’arte, rientra in una visione spirituale dello sviluppo delle arti non dissimile da quella sapienziale che riscontriamo nella Sacra Scrittura. L’idea stessa che l’ispirazione artistica sia un dono d’intelligenza dato per la crescita spirituale del popolo risale a Esodo, capitoli 31,35 e 36: “Il Signore ha chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli”. “Bezaleel, Oliah e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario, fecero ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato”. 15. Itinerari ideali e realiLa stessa tradizione locale offre pertanto uno schema, una sorta di itinerario ideale, per la comprensione religiosa dell’arte toscana. L’evoluzione verso forme espressive capaci di comunicare la vita interiore mediante raffigurazioni “naturali” dell’uomo e del suo mondo, che il Vasari e i suoi contemporanei interpretarono come “progresso” voluto da Dio stesso, ha influito in maniera decisiva sull’esperienza spirituale oltre che visiva dell’Occidente. Tracciare le tappe di tale evoluzione dal 1000 al 1500 significa ripercorrere l’iter spirituale del cristianesimo europeo nei secoli che hanno formato la sua sensibilità moderna: dall’icona a Michelangelo, da una fede in qualche modo dematerializzata, alla santificazione della materia e all’incontro pieno col mondo. Percorsi o itinerari concreti, da definire zona per zona, potrebbero seguire questo schema tradizionale: dal pre-romanico al romanico, e poi alla graduale “riscoperta” dell’uomo e del suo mondo come credibili ambiti di esperienza spirituale, nell’arte del tardo ‘200 fino al ‘500, cui seguire l’arte del ‘600, ‘700 ed ‘800 come “osservatorio” ideale per misurare i mutamenti avvenuti nella spiritualità e nella prassi devozionale cattolica all’alba dell’epoca contemporanea. Tematiche di particolare rilievo nell’arte religiosa della Toscana potranno essere proposte all’attenzione degli studiosi e del pubblico, anche in forma di “itinerari tematici”; ad esempio: i pulpiti in Toscana dal romanico al rinascimento; i tabernacoli eucaristici nella loro forma ed iconografia; i cenacoli conventuali con la loro decorazione pittorica; la spiritualità popolare e l’arte delle “compagnie”. 16. Collaborazioni proficue e necessarieLe Chiese della Toscana accolgono con forte interesse le diverse iniziative già in corso a livello regionale, provinciale e comunale, tra cui la preparazione di itinerari e sussidi relativi alle “vie” e ai “luoghi” della fede, nella prospettiva del 2000. Alle autorità preposte alla tutela e supervisione dei monumenti religiosi offriamo la nostra collaborazione, sia per l’accessibilità ed accoglienza, sia soprattutto per una lettura in senso storico globale dell’edificio o opera d’arte non come realizzazione architettonica generica, o “oggetto” isolato, ma piuttosto come spazio condizionato dalla fede, dalla liturgia, dalla devozione dei cristiani, e singole opere concepite come componenti di un programma illustrante la fede della Chiesa. Sottolineiamo questo concetto – di “programma” con un suo “senso storico globale” per la comunità credente – e, pur nel rispetto delle concrete esigenze di salvaguardia e conservazione, ribadiamo come principio fondamentale che l’opera d’arte religiosa debba rimanere, ogni volta che sia possibile, nel suo contesto d’origine. Qualora necessitasse di un intervento di restauro, deve essere restituita alla comunità in tempi ragionevoli, come funzionale componente dell’esperienza vitale di uomini e donne che, anche in rapporto a tali opere, vivono la loro fede. E poiché la fede è, appunto, un’esperienza vitale – e la vita di sua natura è dinamica – ribadiamo anche il diritto della comunità credente, in colloquio con le autorità preposte, a modificare l’assetto interno del luogo di culto, laddove mutate esigenze liturgiche o devozionali lo richiedessero. Nel contempo, consapevoli dei nostri limiti, anche noi cerchiamo collaboratori. Vogliamo coinvolgere le istituzioni e gli studiosi in un lavoro di ricontestualizzazione storico-religiosa dei monumenti e delle loro suppellettili: ricontestualizzazione mirata ad evidenziare il rapporto tra l’opera d’arte, con i suoi determinati connotati stilistici, e i valori religiosi che l’opera e le stesse scelte che la definiscono sul piano formale vollero esprimere. Siamo disponibili a promuovere corsi di aggiornamento, conferenze, pubblicazioni e sussidi, nella speranza di plasmare un nuovo modo di avvicinare l’opera d’arte religiosa nella prospettiva della fede. In modo particolare, cerchiamo la collaborazione degli artisti. Come da tempo la Chiesa ha indirizzato una pastorale ai giovani, alle famiglie, agli studenti universitari, è arrivato il momento in cui essa si rivolga agli artisti, a questi suoi figli prediletti. “La Chiesa ha bisogno di santi, lo sappiamo, ma essa ha bisogno anche di artisti bravi e capaci; gli uni e gli altri, santi ed artisti, sono testimoni dello spirito vivente in Cristo” – cosi diceva Papa Paolo VI il 4 gennaio 1967 ai membri delle Commissioni Diocesane d’Arte Sacra d’Italia. E’ giunto il momento di richiamare gli artisti alla Chiesa e che in essa abbiano “casa”. Tale richiamo dovrà essere un servizio, una mano tesa, una disponibilità all’ascolto; laddove le circostanze lo consiglino, le singole Chiese potranno designare un “cappellano degli artisti”. Potrà essere utile, in alcuni casi, un invito specifico a creare opere nuove, coinvolgendo anche i fedeli nel processo di ideazione preliminare, con relativa sensibilizzazione alla finalità e senso dell’opera commissionata. Anche l’organizzazione di mostre d’arte religiosa può costituire l’occasione di un riavvicinamento. All’artista non credente, infine, confermiamo la nostra apertura fraterna: ogni espressione creativa autentica ci interessa e ci stimola e può rivelare ciò che noi definiamo l’azione dello Spirito Santo sulla vita dell’uomo. Invitiamo gli artisti non-credenti ad aprirsi, a loro volta, alle grandi tematiche della fede cristiana, che tanto hanno provocato i maestri del passato. In esse troveranno sicuramente ispirazione e tale ispirazione, noi crediamo, può servire anche alla Chiesa. 17. Una pastorale d’accoglienzaNelle nostre chiese storiche, vogliamo infine coinvolgere i fedeli in un servizio di accoglienza “generosa ed intelligente”, informata ad un’unica disciplina, pur nel rispetto delle diverse situazioni, in tutta la regione. Vogliamo preparare operatori culturali cristiani, capaci di “rendere ragione della speranza” comunicata dai monumenti e dalle opere: guide ed accompagnatori, ma anche studiosi, archeologi, critici “ferventi nel bene” che adorino il Signore nei loro cuori (cfr. 1 Pt 3, 13-15). Vogliamo dare a questi collaboratori il senso della dignità di tale servizio, confermando con autorità ecclesiale l’autentico scopo apostolico del lavoro nel campo dell’illustrazione dei monumenti. Contemporaneamente, con uno sguardo verso l’avvenire, ci impegniamo ad introdurre, nel curriculum dei seminari e degli studi teologici, corsi di storia dell’arte sacra, focalizzati sui monumenti della nostra regione, per creare nel clero diocesano, nei religiosi e nei laici impegnati un senso forte del “formidabile strumento di catechesi” costituito dall’architettura e dall’arte. Intendiamo offrire agli insegnanti di religione ed ai catechisti gli aiuti, la formazione, l’approfondimento che permetterà loro di portare gli alunni, i bambini che preparano alla prima Comunione o alla Cresima, a vedere, a toccare con mano, a respirare l’aria della fede dei loro avi. Tale strategia del resto non mira solo a risolvere il “problema turistico”, ma costituisce una vera opera pastorale, in cui la Chiesa adempie al comando del Signore di pascere il gregge. “Perseverando nell’amore fraterno” dell’accoglienza, i volontari così formati riceveranno un dono grande: vedranno arricchita la loro fede personale, approfondita la loro comprensione del mistero cristiano. “Praticando l’ospitalità”, sentiranno di aver “accolto angeli senza saperlo” (cfr. Eb. 13, 1-2), cioè di aver ricevuto dai visitatori più di quanto non avranno dato loro. Né dobbiamo esitare davanti alle esigenze economiche dell’impegno. Come, nel loro nascere, gli edifici e le opere d’arte rappresentarono un investimento materiale nella missione della Chiesa, così oggi la catechesi e la nuova evangelizzazione attraverso l’arte richiedono una disponibilità economica. Corsi di preparazione per i volontari d’accoglienza e per le guide, sussidi plurilingue ed altre iniziative studiate (come specifica il documento CEI) per “soddisfare le legittime esigenze dei visitatori”, potranno essere sovvenzionati, almeno in, parte, con contributi liberi dei visitatori o biglietti d’accesso ai monumenti religiosi. 18. Il Giubileo della speranzaStiliamo queste pagine in uno spirito di speranza e fraternità. La “invasione” delle nostre chiese da parte di milioni di visitatori non deve essere motivo di sgomento, bensì occasione preziosa di accoglienza e condivisione. Vogliamo, sì, arginare la volgarizzazione del turismo nelle chiese, monasteri e santuari, ma non arginare i turisti, i quali – anche se non sempre in maniera consapevole – sono fra i pellegrini di quest’era alla ricerca del senso. Attraverso l’arte del passato – il “deposito” visivo che la fede dei toscani ci ha affidato – e attraverso l’arte del presente, ricca di intuizioni anche profetiche, vogliamo “vedere” e far vedere, “udire” e far udire il Verbo della Vita, Gesù Cristo, che era presso il Padre ma si è reso visibile agli uomini. Uniti a tanti fratelli venuti da lontano, vogliamo contemplare il volto trasfigurato del Salvatore nella fede e nelle “opere” dei credenti di questa terra. Nelle raffigurazioni di Cristo, di Maria, dei santi – ma anche nell’ordine astratto dell’architettura e in quello mistico delle immagini simboliche – vogliamo purificare il nostro sguardo, elevare la nostra mente, preparare il nostro cuore all’impegno che ci aspetta. Guardando insieme alle immagini, vogliamo insieme crescere nella sostanza di quella gioia di cui le opere dipinte, scolpite, costruite, musicate, ritmate e rimate sono la bella veste esterna, come la danza esprime nelle membra del corpo l’abbondanza del cuore. Vogliamo preparare sacerdoti e fedeli a riconoscere l’arte vera in cui si muove lo Spirito di Dio, nel rispetto dei valori umani ed estetici che hanno dato vita ai diversi stili e periodi dell’espressione artistica. Vogliamo, infine, misurarci con le visioni di fede cristiana offerte dalla nostra storia e dall’arte, per comprendere la bellezza della nostra chiamata e per aprirci alla conversione interiore. Nel coraggio, nell’amore, nel sacrificio e nella compassione che vediamo nei volti dipinti e scolpiti – nella gestualità umana raffigurata dagli artisti e nella razionalità di spazi architettonici ordinati per la lode – vogliamo riconoscere la fedeltà dell’Artefice Divino che ha definito “cosa molto buona” la creazione uscita dalle sue mani. A Lui la gloria, in Gesù Cristo suo Figlio e sua immagine, nello Spirito a noi donato. Amen. Firenze, 23 febbraio 1997 Seconda Domenica di Quaresima, “della Trasfigurazione”+Card. Silvano Piovanelli Arcivescovo di Firenze +Gaetano Bonicelli Arcivescovo di Siena – Colle V.E. – Montalcino +Alessandro Plotti Arcivescovo di Pisa +Bruno Tommasi Arcivescovo di Lucca +Alberto Ablondi Vescovo di Livorno +Alberto Giglioli Vescovo di Montepulciano – Chiusi – Pienza +Simone Scatizzi Vescovo di Pistoia +Luciano Giovannetti Vescovo di Fiesole +Eugenio Binini Vescovo di Massa Carrara – Pontremoli +Vasco Giuseppe Bertelli Vescovo di Volterra +Edoardo Ricci Vescovo di San Miniato +Giacomo Babini Vescovo di Grosseto +Gastone Simoni Vescovo di Prato +Vincenzo Savio Vescovo Ausiliare di Livorno +Giovanni De Vivo Vescovo di Pescia +Gualtiero Bassetti Vescovo di Massa Marittima – Piombino +Flavio Roberto Carraro Vescovo di Arezzo – Cortona – Sansepolcro +Mario Meini Vescovo di Pitigliano – Sovana – Orbetello +Michelangelo Tiribilli Abate di Monte Oliveto Maggiore