«Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato, si spegne. Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato». Rubo ad altri parole eloquenti. Che hanno risuonato, sotto altre modulazioni, anche nel convegno tenuto a Monterchi nei giorni scorsi, in occasione della presentazione del «Quaderno»: «Il patrimonio archeologico diffuso».Perché oltre ad illustrare le realtà, il patrimonio, le attività che hanno interessato il territorio valtiberino, una costatazione è emersa subito, e cioè la cultura intesa come «sperpero», aspetto inutile in una società che – si dice- guarda al pratico. In tempo di crisi la cultura è un elemento superfluo; e gli archeologi sono antropologicamente qualificati «quelli dei sassi».Il «volumetto» – e coloro che lo hanno commentato – affida alla Valtiberina un ruolo straordinario anche attraverso l’archeologia, un tema che sembrava assai laterale alla storia di questa vallata e che invece – anche per l’apporto di tanti volenterosi – la rivaluta come terra antropologicamente antica e fucina di «accordi» – quasi un testo musicale – interculturali e interetnici. L’antichità è dimostrata da diffuse e notevoli presenze dell’uomo dal paleolitico inferiore, su su, passando per il paleolitico e l’eneolitico, al neolitico, al bronzo finale, per entrare nella koinè etrusca e romana. Ma questo «corridoio» valtiberino è stato il punto naturale degli incroci Nord/Sud, dei popoli e delle culture orientali, adriatiche, tirreniche, così come in seguito è stato il «corridoio» bizantino e il tramite di tante pulsioni Nord/Sud e viceversa. Non «una cultura» ma la «cultura» degli uomini, mai «isole» ma sempre «navigatori» di mondi, di tramiti appenninici, tra lingue e manufatti che trasmettevano «parole» per comprensioni reciproche.Un patrimonio di vallata, dunque, che – qui il punto focale politico – non può restare negli scantinati o isolato ma che deve costituire un «museo diffuso» e spingere a valorizzare la materia.Giancarlo Renzi