Toscana
La Toscana è ancora cattolica?
di Andrea Drigani
Durante le celebrazioni del 150° dell’Unità nazionale si è sovente osservato, tenendo conto dell’intuizione di Vincenzo Gioberti, che l’Italia, avendo diverse e differenti tradizioni culturali, sociali ed economiche, trovava la sua profonda, e forse unica, coesione nel cattolicesimo, presente in maniera quasi totale in tutto il suo territorio e anche per il ruolo storico della città di Roma. Partendo da queste considerazioni il fiorentino Roberto Cartocci, professore ordinario di scienza politica nell’Università di Bologna, ha voluto studiare, attraverso delle ricerche statistiche, se e in che modo si possa ancora parlare di Italia «cattolica», pubblicando per la Società editrice il Mulino il volume intitolato, appunto, Geografia dell’Italia cattolica.
Il libro si muove dall’intreccio tra processi di secolarizzazione e desecolarizzazione; poiché la secolarizzazione, portata alle estreme conseguenze, non solo ha creato difficoltà alla Chiesa, ma anche allo Stato ed ai partiti di massa, creando vuoti assai rischiosi e pericolosi per la stessa sussistenza della società, con politiche ultraliberiste che rendono assai arduo comprendere perfino l’idea di bene comune. Cartocci rileva, poi, che la personalità carismatica di Giovanni Paolo II ha segnato una rivitalizzazione del mondo cattolico e ha contribuito a sfaldare l’impero sovietico e a chiudere la Guerra fredda, promuovendo una vera e propria opera di desecolarizzazione. L’azione di Papa Wojtyla si è particolarmente sentita anche nel nostro paese: il Papa «venuto da lontano» è stato vicinissimo agli italiani e ai loro problemi.
Entrando nell’analisi dell’attuale contesto nazionale, Cartocci accoglie pienamente e fa sua la ricostruzione del sociologo Franco Garelli sulla distribuzione schematica della popolazione italiana sulla base degli orientamenti cattolici, per la quale i cattolici militanti, cioè coloro che fanno parte dei movimenti ecclesiali, dell’Azione cattolica e che si impegnano nella Caritas e nella vita parrocchiale sono il 10%, coloro che frequentano assiduamente la Messa sono circa il 20%, quelli che invece la frequentano in modo saltuario o limitato sono il 50%, coloro che non frequentano la Messa ma optano per l’otto per mille a favore della Chiesa cattolica e per l’ora di religione sono il 10%, mentre i non cattolici, gli indifferenti e gli anticlericali sono il 10%. Prima di cominciare nella presentazione e nella valutazione dei dati forniti dall’Istat e della Fondazione Istituto Carlo Cattaneo di Bologna, Cartocci osserva molto giustamente che «tracciare le tappe e le mappe di un processo di secolarizzazione, in quanto inteso stricto sensu come recessione dei legami concreti con la chiesa-istituzione, significa comunque pagare un prezzo: semplificare e mortificare la ricchezza dell’esperienza della fede, nelle sue molteplici manifestazioni, buona parte delle quali è del tutto inaccessibile all’osservatore esterno».
Il libro prende in considerazione quattro elementi indicatori: la frequenza alla Messa, i matrimoni, civili e religiosi, oltreché le unioni di fatto; l’insegnamento della religione cattolica; la destinazione dell’otto per mille. Per quanto riguardo la partecipazione alla Messa domenicale, il dato nazionale è del 32,5 %, ma non è un dato omogeneo per tutto il territorio italiano, infatti guardando l’articolazione geografica si nota che è più alto, ad esempio, in Campania (42,8) e in Puglia (41,0), mentre nelle ragioni tradizionalmente considerate lontane da interessi religiosi è assai inferiore come la Toscana (21,7) e l’Emilia-Romagna (22,8), come pure in alcune regioni settentrionali : Friuli-Venezia Giulia (23,7) e Liguria (23,0).
Circa il numero dei matrimoni civili si deve rilevare che esso è di gran lunga aumentato dopo il 1970, cioè con l’introduzione del divorzio. Cartocci fa presente che la scelta di non accedere al rito cattolico non è dovuta soltanto ad agnosticismo, ateismo o anticlericalismo irriducibile, ma anche a un precedente matrimonio, seguito da un divorzio. Il tasso nazionale dei matrimoni civili è del 34%; nelle singoli regioni la percentuale più alta è nel Trentino-Alto Adige (51,7), seguito dal Friuli-Venezia Giulia (51,0), Liguria (50,3), Emilia-Romagna (48,0). La Toscana è al 46,7%. Molto inferiore è il tasso in Calabria (14,1) e in Puglia (16,1). Il numero degli studenti italiani che si avvalgono dell’ora di religione è del 91,2%, quindi i non avvalentesi sono l’8,8 %, ma vi è una variabilità territoriale, infatti la percentuale più alta di coloro che non vogliono usufruire dell’insegnamento religioso è in Toscana (17,6), Emilia-Romagna (16,3), Piemonte (15,7) e Lombardia (14,7). Ancora una volta le percentuali più basse si hanno in Campania (1,3) e Puglia (1,5). Pure nella destinazione dell’otto per mille l’indice nazionale è ragguardevole (89,8 %). Il dato più alto è in Puglia (96,8), quello più basso in Emilia-Romagna (78,2). Cartocci fa inoltre presente che la eventuale misura della secolarizzazione è strettamente legata agli indicatori di sviluppo economico, su questa osservazione conviene ulteriormente approfondire più di quanto non si sia fatto. Nel libro sembrano emergere delle preoccupazioni sulla maggioritaria presenza cattolica nell’Italia meridionale, poiché aumenta il divario tra Nord e Sud, ma ciò non pare che possa costituire un grave problema, almeno per quanto attiene alla tenuta dell’unità nazionale.
L’Italia, dunque, è ancora «cattolica»? La risposta va trovata nella distinzione tra due diverse nozioni : quantità e qualità. Alla prima si possono ricondurre gli aspetti della realtà in relazione all’entità numerica, alla seconda sono ricondotti gli aspetti della realtà suscettibili di giudizio. Quantità e qualità possono spesso anche contrapporsi. È evidente che i numeri sono importanti e vanno studiati, anche in vista di elaborare progetti pastorali, ma non possiamo rinchiuderci in un’ansia aritmetica; l’impegno per l’educazione cristiana, proposto come primario dalla Chiesa in Italia, ci dice che le associazioni, i movimenti e le comunità ecclesiali, caratterizzate da un’identità più teologale che sociale, possono avere, a prescindere dalla loro consistenza, un compito fondamentale ed essenziale, continuando, pure con modi nuovi, quanto è stato fatto da un secolo e mezzo a favore della nostra Italia.
– un 10% di «cattolici militanti», membri di associazioni e movimenti o comunque attivi nella partecipazione alla vita parrocchiale;
– un 20% di «cattolicesimo di minoranza», caratterizzato da un’assidua pratica religiosa;
– un 50% di «cattolicesimo di maggioranza» (ridotta pratica religiosa), con frequenza alla messa saltuaria o limitata alle grandi festività;
– un 10% di non cattolici che però hanno fiducia nella Chiesa: non vanno alla messa, ma scelgono l’ora di religione per i figli e destinano alla Chiesa l’8xmille;
– un 10% di non cattolici, indifferenti o anticlericali, che oltre a non frequentare la chiesa non scelgono l’ora di religione e destinano diversamente l’8xmille.
«E’ una ricerca di grande valore, guai a non tenerne conto. Se la secolarizzazione corrisponde a questi dati, uno sa di cosa si parla. Ma si può dire che esauriscono il fenomeno? Soprattutto in una realtà complessa come la Toscana. E l’esperienza religiosa, soprattutto il sensus vitae, non si risolve esclusivamente in alcune pratiche».
Arnaldo Nesti, direttore del centro internazionale di studi sul fenomeno religioso contemporaneo (Cisreco), apprezza lo studio di Cartocci, ma invita a non usare troppe semplificazioni, anche perché vede, oltre i mutamenti in superficie, «un continuo» nel profondo, frutto anche di una «forte tradizione rurale, mezzadrile, che ha inciso nella mentalità diffusa». Del resto nelle visite «ad limina» dei vescovi toscani tra fine ‘800 e inizi ‘900 «c’è una costante denuncia del collasso del religioso». Anche il «primato» di secolarizzazione per Firenze non lo sorprende. «Basta pensare che nel 1905 il visitatore apostolico, p. Germano, ne parla come una delle più scadenti diocesi». Eppure «anche allora c’era una domanda religiosa che non trovava risposta nella religione di Chiesa». Un po’ come avviene oggi. «Ci sono dei segnali proprio nelle zone di forte tradizione laica, di forte presenza di un sacro selvaggio, devozionale. Si possono interpretare come superstizione, manipolazione del religioso, però di fatto i soggetti si reinventano e ricostruiscono a loro modo un orizzonte religioso». Purtroppo conclude il prof. Nesti «l’azione pastorale non coglie questa domanda religiosa diffusa. Tutto sommato anche in certi ritorni alla Chiesa, si dice: ma sono anziani. Sì, ma perché tornano? Perché c’è una domanda, non tanto confessionale, quanto esistenziale, di cui mi sembra che non si tenga conto adeguatamente».
Non è sorpreso neanche Pietro De Marco, che insegna Sociologia della religione all’Università di Firenze. Lo studio di Cartocci, tra l’altro, «conferma quella rappresentazione storico-politico-religiosa dell’Italia che vede il nucleo più forte e persistente di secolarizzazione nelle ex regioni rosse, con estensione alla Liguria e alle due regioni a statuto speciale del Nord, Val d’Aosta e Trentino Alto Adige, e punte nella Venezia Giulia». Ma De Marco invita «a non dare all’obiettività dei dati, da cui si ricavano tendenze, un valore di canone. Quasi dovessimo adattare la nostra concezione di Chiesa e di pastorale alla pretesa irreversibilità dei processi». In realtà «gli uomini sono attori liberi, non vi è alcun determinismo da accettare. Se vi sono delle tendenze che auspichiamo, dobbiamo operare perché si accentuino. Se sono negative dobbiamo operare perché si invertano». Così, se «una parte degli indicatori di secolarizzazione cammina, seppur lentamente, verso l’alto, è perché anche noi vi contribuiamo, a livello di pastorale non meno che di riflessione e analisi». Quanto al «primato» secolaristico fiorentino De Marco dà peso allo sconvolgimento della cultura e della religione cittadina a partire dal periodo di Firenze capitale d’Italia; la Chiesa ha perso allora la capacità di guida della società civile.
Per il presente, ritiene che il contributo endogeno, cattolico, alla secolarizzazione sia elevato e peculiare. Prendiamo l’ora di religione. C’è scarsa o nulla attenzione a trasmettere la sua significatività. Anche tra i cattolici la si considera «come superflua, invasiva, poco laica». Lo stesso «per sacramenti rilevanti dal punto di vista della struttura sociale profonda», come il matrimonio.
«Ho l’impressione prosegue De Marco che tanti preti preferiscano non sposare persone che si presentano in condizioni di fede non idonee e le disincentivino». Insomma, se non abbiamo un clero che indichi che questi comportamenti di religione pubblica che Cartocci ha preso come indicatori sono importanti per l’appartenenza cattolica, la loro irrilevanza nella pastorale li rende tanto più irrilevanti nelle visioni individuali. Se andare alla Messa non è così rilevante, ci andrò quando posso. Se sposarsi in chiesa non è così rilevante, i nostri ragazzi si sposeranno quando possono. Anche mai. Da un lato l’incremento degli indicatori di secolarizzazione è, dunque, poco qualificato, inerziale. Ma resta un processo con una sua gravità: nell’avvicendarsi delle generazioni quello che si perde è molto. Produce persone non anticattoliche, ma semplicemente all’oscuro del paradigma cristiano. L’azione di contrasto e la ripresa di missionarietà cattolica sono perciò indispensabili».