Dossier
La Toscana delle bande e dei cori
Che sia presente in manifestazioni di carattere civile, religioso o militare, attorno alla banda si riuniscono i ricordi di tante generazioni, anziani e bambini, che hanno fatto, o fanno ancora da cordone attorno a queste formazioni che passano colorate e vivaci, a tempo di musica, lungo le vie del paese, precedute dal rullo dei tamburi e dal suono acuto dei flauti. Immagine molto popolare, la banda è da sempre associata, così, a un momento di festa, attorno al quale si riunisce il paese, o la città. Eppure, purtroppo declassata in Italia a musica di «secondo livello», difficilmente si conosce la storia e la natura dell’arte dello «zum-pa-pa». Andando a ritroso alla scoperta di questo mondo, tanto affascinante quanto sconosciuto, si comprendono i motivi che hanno portato la banda ad essere così come è oggi e, cercando nella storia della Toscana, non é difficile trovare bande con vite lunghe in alcuni casi ben più di due secoli.
La parola banda deriva dal gotico «Bandwa», che riprende a sua volta il latino medievale «bandum», «insegna». L’idea del suono itinerante, ottenuto attraverso strumenti leggeri e maneggiabili che facesse da accompagnamento soprattutto a parate militari, nasce fin da subito, durante l’impero Romano, come strumento al servizio della collettività, forte elemento di riconoscimento per la stessa popolazione. Da notare che in epoca romana i complessi, formati da un numero ridotto di elementi, erano per lo più composti da strumenti a fiato, solo occasionalmente affiancati, come invece avviene oggi, da strumenti a percussione, cosa che in epoca moderna distingue la banda dall’orchestra, formazione in cui sono presenti anche gli strumenti ad arco (violini, violoncelli, ecc.).
Durante il Rinascimento la banda diventa elemento e momento di intrattenimento popolare, oltre che di dimostrazione militare, e si assiste in quel periodo al grande diversificarsi delle tradizioni bandistiche nazionali e regionali, che iniziano ad assumere caratteristiche individuali. Ma si deve all’Islam, e in pochi lo sanno, se nella banda, oggi, sono presenti gli strumenti a percussione, introdotti permanentemente proprio sotto l’impero Ottomano.
Passano i secoli, la Rivoluzione francese e l’epoca dei lumi danno un grande impulso all’attività bandistica, si consolida il modello di banda con strumenti ad ancia, ottoni e percussioni, iniziano, e sono qui da ricercarsi, i primi segnali della banda moderna. Numerosi musicisti si dedicano infatti alla musica per banda, dando vita a una letteratura imponente su cui ancora oggi si basano molte melodie moderne. L’Italia in tutto questo attingerà al suo repertorio di musica melodrammatica, attraverso trasposizioni della stessa musica per complessi di fiati, creando una profonda spaccatura con il resto dell’Europa. Non si svilupperà mai, infatti, nel nostro paese, un retroscena musicale originale per banda, cosa che invece avverrà e avviene con molta più facilità nel resto del continente europeo.
Tra Ottocento e Novecento vengono inventati i pistoni, che facilitano l’uso degli strumenti ad ottone, vengono perfezionati i meccanismi nelle chiavi dei clarinetti ed è nel 1846 che Adolphe Sax inventa il Saxofono, tutti elementi che determinano l’affinamento della struttura dell’organico bandistico che così arriva a contare fino a sessanta, settanta e persino cento esecutori.
È di quest’epoca il lavoro di Alessandro Vessella, direttore di banda e maestro, sconosciuto ai profani della musica bandistica, ma vero caposaldo nella storia del suono itinerante: dando vita alle tre tipologie di organico bandistico (nel suo «Studi di strumentazione per banda», del 1931): la piccola banda (da 25 a 30 strumenti), la media (da 30 a 50) e la grande (da 50 a 70), Vessella arriva a definire i caratteri della banda moderna, dando un forte impulso alla arretrata Italia, da sempre in secondo piano rispetto al panorama europeo.
Nel medioevo il canto è prevalentemente quello religioso, sia ebraico che cristiano, il cosiddetto «canto gregoriano», canto monodico (a una sola voce).
La polifonia, si svilupperà nel duecento ma è nel ‘500 che conoscerà il successo con grandi autori polifonici italiani e stranieri (Palestrina, Monteverdi), sia con brani religiosi (mottetti, cantate), che profani (madrigali, canzonelle ecc.).
Nel ‘600 i grandi autori barocchi (Bach, Hendel, Vivaldi) e, nel ‘700-‘800, i classico-romantici Mozart, Beethoven, Mendelssohn, Brahms, Schuman proporranno uno splendido repertorio; per non parlare poi del nuovo linguaggio degli autori moderni e contemporanei.
Oltre alla polifonia, che è musica d’autore, si sviluppa, a partire dal ‘500 anche il canto popolare, che si è mantenuto sino ai nostri giorni in forma tradizionale, ossia trasmesso oralmente di generazione in generazione dopo aver perso il nome degli autori dei brani, che si caratterizzava come canto per il lavoro dei campi, nelle ninne nanne, nelle veglie serali, nelle feste.
La tradizione del melodramma italiano si traduce nei cori d’opera, o cori lirici, mentre in epoca moderna, e soprattutto fra i più giovani, si stanno diffondendo, oggi, i cori gospel con canzoni tratte dal repertorio dei negro-spirituals, i canti spirituali degli schiavi neri.
Per concludere il panorama della tradizione corale, non si può infine non menzionare la tradizione dei cori di chiesa, forse i più diffusi, considerati minori per l’assenza di professionalità, ma che fanno un servizio preziosissimo durante la funzione religiosa domenicale.
Più piccoli, e per questo classificati non come cori ma come gruppi vocali-cameristici, sono i gruppi che raccolgono fino a 12 persone, cioè una o due rappresentanze per voce. In genere più professionali, dato il minor numero di componenti presenti, questi gruppi rappresentano dei veri e propri cori in miniatura.
Senza accompagnamento, ossia «a cappella», accompagnati dal suono di un organo o di un’orchestra, la tradizione corale distingue tra cori piccoli, formati da un minimo di 16 persone, a quelli medi (30), fino a quelli grandi che possono arrivare a 40, persino 60 componenti.
La quasi totalità dei cantori è costituita da dilettanti, che si avvicinano all’esperienza corale per passione e generalmente l’attività svolta è completamente a titolo gratuito. Solo i direttori sono professionisti, diplomati in canto corale o direzione corale al conservatorio.
Una figura molto importante, ma poco conosciuta, è quella del vocalista. Presente agli incontri e alle prove del singolo coro, o almeno di quelli più importanti, il vocalista insegna alle varie voci la tecnica per migliorare la qualità del suono, l’estensione vocale, la respirazione.
Perché cantare, in fondo, non è uno scherzo. Le voci, all’interno di un coro misto, possono variare da quattro a sei. Vengono subito in mente Maria Callas o Luciano Pavarotti quando si parla di soprani o tenori, ma un coro non può dirsi completo se mancano i contralti e i mezzi soprani per le donne, i bassi e i baritoni per gli uomini.
Esistono anche i cori virili, cioè formati da sole voci maschili, femminili (entrambi a quattro voci), a cui si aggiungono quelli dei bambini, le cosiddette «Voci Bianche», a 3 voci (per richiamare il colore dell’innocenza).
Che sia il repertorio musicale, o la tipologia di voci a distinguere la varietà dei cori, se ne può facilmente intuire la complessità e la vastità, ma tuttavia, per la facilità di approccio, l’esperienza corale propone tante possibilità di crescita singola e di arricchimento personale.
Chi pensasse di provare a cantare, deve sapere che in Toscana può trovare ben 90 cori classici misti, 10 cori Gospel, 9 cori maschili, 5 cori femminili e 3 cori di voci bianche. Sono escluse da questo breve censimento, realizzato dall’associazione Cori della Toscana (www.coritoscana.it), associazione nata per raccogliere le varie realtà corali della nostra regione, le realtà minoritarie dei cori di chiesa assolutamente presenti e radicate nella nostra regione, ma che spesso non vengono monitorizzati per il loro carattere piuttosto amatoriale. Le età dei coristi sono le più varie, prevale la fascia che va dai 26 ai 60 anni, anche se pesa, a questo proposito, lo scarso ricambio generazionale. Impiegati, insegnanti, studenti e pensionati, sono queste le categorie che si ritrovano di solito due volte la settimana a provare negli ambienti più vari, spesso le chiese, uniti, da nessun altro motivo se non una profonda passione per la melodia cantata.
Scrive a questo proposito Hilaire Belloc, scrittore inglese del secolo scorso: «È il migliore dei mestieri, fare canzoni; e subito dopo viene cantarle».
La dimostrazione che non è necessario essere professionisti per iniziare a cantare, e nemmeno per dirigere un coro.
«Non è necessario essere professionisti, anche se, è chiaro, più il livello di cultura musicale è alto, più il livello professionale del coro diventa maggiore. Oggi sono il direttore del coro polifonico Florentia del Cam (Centro di attività musicale) del quartiere 2 di Firenze, una bella esperienza di scuola di musica nel cuore di Firenze. La professionalità, comunque, viene fuori soprattutto nei gruppi cameristici, in quelli piccoli, dove, proprio per il ridotto numero di coristi, anche la più piccola sbavatura si sente maggiormente».
Ma a che cosa serve cantare in un coro? Qual è il ruolo e il valore che l’attività corale può avere all’interno di una città come Firenze o una regione come la Toscana? E come giustifica la presenza di tanti cori?
«Il coro non ha altro ruolo se non quello di fare da aggregatore sociale. Non ci sono compensi economici per chi decide di far parte di un coro. Tutta l’attività dei coristi, così come anche della maggior parte dei direttori, è assolutamente gratuita. Per cui, chi inizia e chi decide di far parte di un coro lo fa per pura passione. E la passione per qualcosa, insieme a sapere che ci sono altri che la condividono con te, sono due bei motivi collanti. È un po’ lo stesso ruolo del calcio nei ragazzi. Se ci si pensa serve a ben poco anche quello, eppure l’attività sportiva così come l’arte musicale, bandistica o corale che sia, hanno il pregio di riunire, di far conoscere persone. A livello istituzionale siamo una bella risorsa, sia i cori popolari, che proprio per il repertorio che suonano, vengono facilmente contattati nelle feste di paese, sia quelli polifonici, magari meno entranti nel tessuto cittadino e più adattabili a iniziative religiose. Ad ogni modo, devo dire con dispiacere che purtroppo la potenzialità dei cori in questo senso è ancora oggi troppo poco sottolineata. C’è poca attenzione da parte della comunità cittadina alla nostra attività».
E i giovani? Secondo lei c’è sensibilità da parte dei ragazzi all’esperienza corale?
«L’interesse c’è, bene o male si trovano ragazzi che hanno un profondo entusiasmo. La realtà è piuttosto viva anche se, ma penso sia la condizione anche di altre esperienze in ambito musicale, il ricambio generazionale non è eccessivamente alto. Ho notato che i giovani, almeno negli ultimi dieci anni, se decidono di far parte di un coro, si orientano verso i gospel, realtà che magari si adeguano meglio all’entusiasmo della giovane età. Mi auguro solo che in futuro, per loro ma anche per chi da anni vive questa bella esperienza, possa essere riconosciuto adeguatamente il ruolo sociale del canto e che sempre più spesso accada di essere ricercati, e non di dover cercare, per proporre i nostri repertori in giro per la nostra bella regione».
Sara D’Oriano