Toscana
La Toscana dal Papa
Sono già previsti circa 12 mila pellegrini da tutta la Toscana per l’udienza di Benedetto XVI in piazza San Pietro del prossimo 18 aprile, che rappresenterà il momento culminante della «visita ad limina apostolorum» dei vescovi toscani. Un treno speciale raccoglierà i pellegrini delle diocesi di Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino e di Montepulciano-Chiusi-Pienza, mentre dalle altre città partiranno numerosi pullman. I pellegrini avranno il pass speciale per partecipare all’udienza con il Papa, e potranno poi prendere parte alla Messa concelebrata dai Vescovi toscani nella basilica di San Pietro. Per partecipare, ci si può rivolgere alla propria Diocesi.
L’intervista: Antonelli: Preoccupati per famiglia, pratica religiosa e vocazioni
di Riccardo Bigi
Ha al collo la «Croce Costantina», il crocifisso pettorale che Benedetto XVI dona a tutti i vescovi che in questi giorni incontra per la «Visita ad limina». Il cardinale Ennio Antonelli, arcivescovo di Firenze e presidente della Conferenza Episcopale Toscana, è appena rientrato da Roma dove ha vissuto uno dei momenti fondamentali della «Visita»: l’incontro personale con il Papa. «È stato un incontro molto familiare, cordiale, aperto. Abbiamo parlato di tante cose: dell’andamento del Seminario (è stato molto contento del fatto che quest’anno a Firenze ci siano stati 13 nuovi ingressi), della situazione del clero, dei religiosi, la partecipazione dei laici alla vita della Chiesa, le parrocchie, l’apertura missionaria, la pastorale della famiglia e dei giovani, la Facoltà Teologica».
Insieme al cardinale Antonelli e al suo ausiliare Claudio Maniago, sono altri cinque i vescovi toscani che lunedì scorso hanno già avuto il colloquio personale con Benedetto XVI: sono gli arcivescovi di Pisa Alessandro Plotti e di Lucca Italo Castellani, i vescovi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Gualtiero Bassetti, di Pistoia Mansueto Bianchi, di Massa Carrara-Pontremoli Eugenio Binini. Dopo questo «anticipo», la visita dei vescovi toscani proseguirà dal 16 al 20 aprile, con un fitto programma che prevede gli incontri privati degli altri pastori della Toscana con il Papa, e gli incontri collegiali con le varie congregazioni vaticane.
Eminenza, qual è il senso di questo incontro periodico con il Papa?
«L’obiettivo della visita ad limina è quello di rafforzare il legame di comunione con la Sede di Pietro e con la persona del Santo Padre, ascoltare le sue indicazioni e informarlo sulla situazione delle nostre Chiese. Uno scambio, un incontro incentrato sulla comunione e la preghiera».
A livello regionale, quale situazione presenterete al Papa?
«La Toscana è una regione che gode di un buon livello di benessere, ma è anche una terra molto secolarizzata, quindi ci sono indubbiamente delle difficoltà per quanto riguarda la pratica religiosa, la tenuta della famiglia, le vocazioni: queste sono le preoccupazioni principali che abbiamo, come vescovi toscani».
A proposito di vocazioni, cosa dicono i numeri?
«I seminaristi toscani sono in totale 118, distribuiti tra le varie diocesi in proporzione abbastanza variabile. A Firenze, oltre ai 30 seminaristi della diocesi fiorentina, sono ospitati i seminaristi delle diocesi di Pistoia, Volterra e San Miniato: in questo momento sono presenti in tutto 50 seminaristi, quindi è una comunità ampia, ricca. Altre diocesi fanno capo, per gli studi, allo Studio Teologico di Camaiore, ma hanno seminari propri: Livorno, Pisa, Lucca, Massa Carrara-Pontremoli. Anche le diocesi di Arezzo, Fiesole, Grosseto, Prato, hanno un proprio seminario mentre il seminario regionale di Siena accoglie anche i seminaristi di Pitigliano-Sovana-Orbetello, Massa Marittima-Piombino e Montepulciano-Chiusi-Pienza: in questo momento sono complessivamente in 11. ».
E per quanto riguarda la vita consacrata?
«In Toscana c’è ancora un numero considerevolissimo di religiosi e religiose, ma sono in gran parte anziani, per questo alcune congregazioni sono costrette a chiudere diverse case. Dovremo parlare quindi di come ripensare la presenza dei religiosi, perché sia una presenza significativa. Poi, sempre parlando degli incontri che faremo, ci sarà quello con la Congregazione per la Dottrina della fede: il tema sarà il confronto tra la fede e la mentalità del nostro tempo, la difficoltà nel trasmettere i valori cristiani all’interno della cultura corrente, le realtà con cui dobbiamo fare i conti come il relativismo, la secolarizzazione, il pluralismo…»
Riguardo la partecipazione alla Messa, qual è la situazione in Toscana?
«Nella diocesi di Firenze si aggira intorno al 15%. In altre zone è leggermente più alta: Lucca, Pistoia, Prato, Fiesole, Arezzo. Credo che sia leggermente più bassa invece nella fascia costiera: Pisa, Livorno, Grosseto, anche Siena. Credo anche che, in generale, nelle diocesi più piccole la situazione sia migliore che in quelle grandi».
Se si considerano alcuni «indicatori», come la frequenza dell’ora di religione o la percentuale di matrimoni religiosi, la Toscana appare piuttosto indietro rispetto ad altre zone d’Italia. Quali sono le strade da battere per contrastare questa tendenza?
«Il nostro compito è soprattutto quello di evangelizzare e far conoscere e amare il Signore Gesù. Una delle priorità è senz’altro la pastorale della famiglia, il coinvolgimento delle famiglie nell’iniziazione cristiana dei bambini, l’accompagnamento dei fidanzati… E poi la pastorale universitaria (60 mila studenti solo a Firenze), il coinvolgimento dei giovani con strumenti nuovi, come abbiamo fatto a Firenze aprendo su internet il forum «Iabbok.it», e l’impegno di una presenza cristiana nelle scuole».
Cosa caratterizza la nostra religiosità? C’è un modo «toscano» di vivere la fede?
«In generale, c’è una certa vivacità nella partecipazione alla vita della Chiesa, c’è il desiderio del confronto, del dibattito. Ci sono parrocchie molto attive, c’è grande impegno nel volontariato, nelle attività caritative. Forse ci sarebbe bisogno di una testimonianza cristiana più forte negli ambienti di vita: nella scuola, nel lavoro, nella vita culturale, sociale, politica. Una testimonianza coraggiosa, capace di iniziativa, di proposta: ed è un compito che spetta in particolare ai laici. Sarebbe auspicabile da parte dei cattolici un maggiore coraggio, una maggiore capacità di fare opinione, di intervenire nei dibattiti pubblici, di offrire una lettura cristiana dei problemi e delle situazioni».
L’appuntamento centrale della «visita ad limina» è l’udienza generale del Papa di mercoledì 18 aprile…
«Dalla Toscana sono previsti diecimila pellegrini, una bella cifra. Dopo l’incontro con il Papa celebreremo la Messa in San Pietro: questo è il cuore della visita, il suo significato più profondo. L’unità della Chiesa intorno a Pietro, alla roccia posta dal Signore: Pietro che, come diceva San Leone Magno, continua a vivere e ad agire attraverso i suoi successori. La tomba di Pietro è simbolo dell’unità della Chiesa, dell’unità della fede, della comunione ecclesiale. Io ho avuto la fortuna di celebrare la mia prima Messa a Roma nelle grotte di San Pietro: è stata un’esperienza molto emozionante, un brivido che ancora ricordo».
L’analisi: Una cattolicità senza sfera pubblica
Ha scritto il sociologo Franco Garelli che nella «svolta antropologica e nell’investimento sulla cultura [indotte, mi permetto di sottolineare, nella riflessione e nella parola della Chiesa italiana dal magistero di Giovanni Paolo e dalla Presidenza Cei del card. Ruini, p.d.m]», rientrano anche «il forte richiamo identitario e la scelta [cattolica] di far leva su quella parte della società che più avverte l’esigenza di riattualizzare nel tempo presente i valori della fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano». Questo slancio, che mobilita minoranze ed è destinato alla «più ampia società”, avrebbe già ottenuto effetti: “l’attuale stagione della Chiesa e del cattolicesimo italiani è profondamente segnata dal richiamo all’identità cristiana e dall’impegno sui valori irrinunciabili» (F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino, 2006, p.130-131).
Mi chiedevo, leggendo, in quale misura questa fondata generalizzazione (Garelli ha offerto, nell’ultimo quarto di secolo, le letture del cattolicesimo italiano meno ipotecate da conformistiche prognosi di declino) si applichi alle comunità e alle culture cattoliche toscane. Quanto vi è, nella Toscana cattolica, di questa vitalità, di queste effervescenze nazionali? In effetti ben poco; tensione e passione di minoranze. Certamente vi è dell’altro nella Toscana cattolica; ma non vi è significativamente «richiamo identitario». Azzardo questa opinione, senza il sussidio di una vera indagine sociografica regionale (comunque complessa, già nel suo disegno), sulla scorta di ricerche particolari e di una riflessione personale. La giustifico con alcune tesi, da verificare.
Una prima tesi. Nelle comunità toscane l’esistenza cattolica, fuori dalle cerchie familiari e parrocchiali o dai numerosi piccoli cenacoli spirituali e intellettuali nonché dalle visibilità (circoscritte) della pratica domenicale e dell’attività assistenziale, è prevalentemente una visibilità dell’assenza. Sia concesso l’ossimoro. Questo dato modale (un dato che costituisce, cioè, una caratteristica centrale del maggior numero di casi della vita cattolica, in Toscana, quanto a dimensione civile) vale anche per il clero, fatto salvo il suo maggiore apparire, per dire così, professionale.
Tale prevalente «assenza» è assenza (cattolica, toscana) da ciò che si chiama sfera pubblica. Una dominante invisibilità cattolica non può essere surrogata dalle nostre «mille attività» (certamente importanti e generose) nel «sociale» e nei cosiddetti mondi vitali quotidiani. La sfera pubblica è altra cosa; la dimensione civile del «riattualizzare nel tempo presente i valori della fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano» non si realizza nelle piccole cose. Il sociologo si scusa con il «monaco» (postconciliare) per questa spiacevole evidenza.
Una seconda tesi. Questa sindrome toscana di un’esistenza pubblicamente assente (come cattolica) si traduce frequentemente, credo, in una speciale presenza dei singoli nella dimensione pubblica, ovvero nella sfera intellettuale o politica, etico-pubblica o ideologica, locale o meno. In una presenza mimetica. Che significa? Si dà presenza mimetica se si agisce adottando l’imitazione o, meglio, l’abito e il ruolo di attori già sperimentati e graditi nella sfera pubblica. Così il cattolico è di volta in volta il tollerante mediatore, il pacifista, il narratore di antiche glorie (ad esempio fiorentine), il critico dell’istituzione ecclesiastica, il combattente per la Costituzione, l’amministratore per eccellenza dalla parte del cittadino, il politico che si oppone alla «divisione del paese», il prete dei diseredati (gli altri preti suscitano diffidenza), il volontario per ragioni strettamente «umane», il teologo rigorosamente intellettuale progressista ecc. Presenza mimetica, si badi, per convinzione; più raramente per pratica nicodemitica, cioè rivolta a dissimulare la propria identità. Questa versione puramente «laica» del proprio apparire pubblico ha una storia cattolica, specialmente ma non esclusivamente fiorentina, e ad essa continua ad attingere.
Una terza tesi. Questa invisibilità effettiva nella presenza mimetica, comporta l’obiettiva separatezza del privato (e del comunitario) della fede dalla sfera pubblica. È interessante che conviva invece con l’ideologia dell’abbattimento di «storici steccati» tra Chiesa e società civile. Come regge questo paradosso? L’invisibilità cattolica toscana (modale) e i suoi popolari teoremi hanno un retroterra di teologia debole. Un remoto anti-intellettualismo (diffuso nel clero) e più recenti pervasive catechesi dell’Altro (diffuse nei laicati parrocchiali) legittimano, da noi più che altrove, un irriflesso abbandono cattolico del momento pubblico, nella certezza di praticarlo. Rendono «spontaneo» il far coincidere la condizione laicale (di christifidelis laicus) con la laicità dei moderni. Non mi stupisco, allora, di fronte alla progressiva riduzione dei contenuti (della fides quae creditur) nella trasmissione catechetica delle nostre parrochie o alla manipolazione filantropica e solidaristica delle parole del dogma e della liturgia.
Una soluzione semplificatrice, d’altronde: il laico senza fede positiva né cittadinanza religiosa non abita con bella naturalezza la sfera pubblica delle società moderne? Ma questo avviene perché l’ha realizzata a propria immagine. Il cristiano, cattolico in particolare, vi abita invece con intrinseca, insuperabile, problematicità, poiché la «neutralità» della sfera pubblica agisce quotidianamente come la ben nota «bussola impazzita» e sfida la responsabilità che la Città di Dio ha sulla destinazione ultima della politica. La sfida su terreni non declamatori, ma su soglie critiche: affrontarle non vi sono (né potrebbero esserci) modelli laici da imitare, ruoli corretti da rivestire; e il cristiano (prete o comune fedele) deve operare allo scoperto. Quanta percezione di questa criticità di ogni giorno e di questo dovere vi è nella Toscana cattolica? Il profilo modale mi pare rivolto ad altro. E come può un larvale «sentire» cattolico, senza dottrina, confrontarsi con l’orizzonte delle istituzioni politiche? Buone domande per una difficile ricerca. Il sociologo non è così sprovveduto da ricondurre tutto ciò alla «secolarizzazione».
Sappiamo di numerose minoranze, nel clero e nel laicato, che hanno un’attenzione critica per questa Toscana cattolica, e vi si oppongono come possono (magari abbonando circoli e parrocchie a qualche periodico di battaglia antimoderna). E avviene che dove si cerca una visione più rigorosamente e realisticamente cristiana (e se necessario conflittuale) dell’agire cattolico pubblico, lì si realizzi anche un più attento sapere della fede.