Vita Chiesa
La testimonianza: Visto da Maputo è un evento lontano
Da tre anni viviamo in Mozambico, provincia di Maputo, come laici missionari fidei donum, con i nostri tre figli che nel frattempo sono diventati quattro. Concretamente ci è stata affidata la cura pastorale di una parrocchia di circa 900 Kmq divisa in 13 comunità, in corresponsabilità con il parroco, Padre Francisco Lucas, sacerdote diocesano.
La nostra parrocchia S. Rafael Arcanjo di Chibututuine, è inserita in un territorio rurale a 75 km a nord della capitale Maputo, poco densamente popolato, in tutto le famiglie «praticanti» sono circa seicento. Per cercare di spiegare cosa intendiamo per «cura pastorale» dobbiamo ricorrere alla invettiva di Ezechiele contro i falsi pastori, che non curando, non fasciando e non riportando le pecore disperse, non si prendono di fatto cura del gregge. Ovvero una cura che parte dall’incontro con la persona, ogni persona, con le sue specificità, evitando approcci generalizzati rivolti alla «gente». Modello di questo servizio alla persona, è per noi lo scomparso Padre Giuseppe Mauri, parroco qui fino al 2004 di cui tutti ricordano come conoscesse i «suoi» cristiani uno per uno per nome.
Le fraternità di laici e sacerdoti fidei donum italiani, di cui facciamo parte, formate presso il Centro di Fraternità Missionari di Piombino, giunte qui circa dieci anni fa, hanno trovato le comunità abbandonate a se stesse dopo 25 anni senza una presenza stabile nella parrocchia, ma nonostante tutto una fede mantenuta ostinatamente viva da laici impegnati in prima persona, su ogni fronte, dalla liturgia alla catechesi. Il nostro impegno continua oggi su questa linea cercando di formare i responsabili delle diverse attività, chiamati ministeri, in ogni comunità; e di consolidare la completa autonomia finanziaria della parrocchia e di ciascuna comunità. Tutto questo in conformità con le scelte della diocesi di Maputo, cui apparteniamo, che fin dal 1977 (ai primordi dell’indipendenza) ha scelto come modello per la Chiesa locale, dopo la fallimentare esperienza di una Chiesa «trionfalistica» strettamente legata al regime coloniale, una Chiesa ministeriale fondata sulle comunità ecclesiali di base, che qui prendono il nome di nuclei; e che nel 2006 ha intrapreso il difficile cammino della pastorale del Dizimo per raggiungere l’obiettivo della propria autonomia finanziaria, puntando sulla responsabilizzazione dei propri credenti piuttosto che su una fitta campagna di richieste di «sponsorizzazioni».
La nostra Chiesa locale è già da tre anni nel cammino del Sinodo Diocesano, del quale stiamo ora vivendo l’ultima fase: dopo l’approfondimento sulla Parola e sui Sacramenti, quello sulla Diaconia. Questo lavoro ha richiesto uno sforzo aggiuntivo rispetto alle normali attività pastorali, per la traduzione dei documenti, dal portoghese (lingua ufficiale) al ronga (lingua locale); la formazione di un gruppo di facilitatori che andassero nelle comunità a raccogliere il «sentire» delle persone sui temi proposti; ed infine un lavoro di raccolta di quanto emerso nelle varie sedi. In questo panorama, il Sinodo per l’Africa, non si è potuto di fatto affrontare, non sono stati distribuiti né i lineamenta né i questionari; abbiamo ricevuto personalmente informazioni attraverso la rivista Nigrizia, ma per quanto sia duro ammetterlo, questa «camminata insieme» (sinodo appunto) la stanno per fare i Vescovi riuniti a Roma, quantomeno senza le persone di Chibututuine. Forse tre anni per divulgare i documenti, realizzare le assemblee ai vari livelli dalle comunità di base alle conferenze episcopali, e collezionare le risposte ai questionari, in un continente che conta 53 stati, quasi 400 milioni di abitanti, un territorio vastissimo, e più di duemila lingue diverse, sono pochi.
Quel monolite a cui diamo il nome di Africa, e a cui abbiniamo lo stereotipo di essere abitato da africani che soffrono per le guerre e la fame, vivono in tribù bellicose dai costumi selvaggi, assistiti da devoti missionari, semplicemente non esiste. Questa presa di coscienza è il primo passo per passare a elaborare le nostre analisi basandoci sulla categoria «persone» piuttosto che sulla categoria «gente». Allora, forse, potremo incontrare veramente i nostri fratelli, dei quali il Signore ci chiederà conto, come chiese a Caino. Speriamo che la nostra unica risposta non sia « respinto!».