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La storia: Fiamma, dall’argento europeo alle Paralimpiadi 2028

Con una gamba amputata sopra il ginocchio all'età di 17 anni per una malformazione congenita, la psicoterapeuta fiorentina ha iniziato a praticare l'arrampicata, altrimenti nota come climbing, e spera di essere convocata a Los Angeles nel 2028

Fiamma Cocchi sul podio a Villars, in Svizzera, dove ha vinto la medaglia d'argento

Quando si dice che impossibile non è per sempre. Il 24 e 25 agosto si è tenuto il primo campionato europeo di paraclimbing a Villars, in Svizzera. Tra i nove atleti convocati anche la fiorentina Fiamma Cocchi, incredula ed entusiasta. “Ho lottato fino alla fine per provare a raggiungere il podio – ci dice – ma mai avrei immaginato di arrivare seconda. Rientro a Firenze con la mia prima medaglia d’argento e una voglia ancora più graffiante di allenarmi in questo mese in vista dell’ultima tappa di coppa del mondo che si terrà finalmente in Italia, ad Arco, nel nuovissimo centro federale della Fasi, il 27 settembre. Chi lo avrebbe mai detto”.
Con una gamba amputata sopra il ginocchio all’età di 17 anni in seguito a una malformazione congenita, Fiamma, oggi quarantaseienne e psicoterapeuta, ha iniziato da poco a praticare con ottimi risultati l’arrampicata sportiva, altrimenti nota come climbing, e «vede» già la propria partecipazione alle Paralimpiadi del 2028 a Los Angeles, dopo che recentemente il Comitato paralimpico internazionale ha deciso di aggiungere anche il paraclimbing tra le discipline ammesse.
Fiamma, davvero una bella notizia, no?
«Sì, certo, poi dipende se verrò convocata. Devo lavorare tanto perché in realtà pratico l’arrampicata da poco tempo. A settembre 2022 a San Vincenzo si svolgeva “Sottogamba Game”, un evento in cui vengono presentati vari sport per le varie disabilità. Sono sempre stata affascinata dalle pareti e dall’arrampicata, quindi quando sono arrivata lì ho provato. C’era una ragazza, Nadia Beredice, che poi è diventata una mia cara amica: lei era già nella Nazionale da tempo, è non vedente ed è campionessa mondiale: mi ha molto motivato. E c’era anche un ragazzo che, per caso, lavorava in una palestra di arrampicata a Firenze e quindi cominciai con lui, i primi mesi per svago, una volta a settimana. Poi a marzo 2023 andai alla mia prima gara, come quando si va a fare un esame senza aver neanche comprato il libro. Felice ed entusiasta, molto leggera, senza neanche sapere bene cosa aspettarmi. E con la protesi chiaramente, perché mi stavo allenando con quella. Lì Cristina Cascone, a cui io devo tutto perché è il direttore tecnico della Nazionale paraclimbing, mi notò e mi disse: “Hai il fisico adatto; se vuoi sognare di entrare nella squadra, devi allenarti tanto però ti devi levare la protesi”».
Una richiesta evidentemente inattesa…
«La mia amputazione è sopra il ginocchio, quindi la protesi era solo un peso. Ma per me levarmela era quasi come pensare di arrampicarsi nudi, una cosa impensabile. Quindi la ringraziai e la salutai. E invece mi si accese un interruttore, perché da lì a pochi giorni chiamai la responsabile del mio centro protesi a Bologna. Insieme abbiamo provato a costruire un invaso che è una sorta di “proteggi moncone”, per fare in modo di non farmi male, e da quel momento ho cominciato, usando questa sorta di cuffia rigida. Lì mi sono sentita veramente libera di essere me stessa, di sentirmi più leggera ed è anche questa la bellezza dell’arrampicata: passare da essere sempre stata “copertissima” per 46 anni, all’idea di fare uno sport in cui levarmi la protesi davanti a tutti».
L’arrampicata vera e propria l’ha scoperta ora, ma so che alla montagna c’era già arrivata…
«Sì, prima facevo solo nuoto, ma a un certo punto ho mollato proprio per noia. Poi nel 2014 ho conosciuto Roberto Bruzzone, anche lui amputato e con una protesi a causa di un incidente stradale: un ragazzo sportivissimo che ha avuto l’idea geniale di organizzare dei camp sportivi per ragazzi con le protesi. Quindi partecipai un po’ per curiosità, un po’ per capire come funzionava e così nacque questa possibilità di poter fare tante altre cose: con lui facevamo soprattutto trekking e montagna, perché è un camminatore, ma piano piano abbiamo fatto anche altre cose, come windsurf, rafting e non solo. È stato molto bello perché con questo gruppo di ragazzi tutti con le protesi è cominciato a nascere l’amore per lo sport, che può unire e far vivere la disabilità in maniera del tutto diversa, in senso positivo».
E ora in parete a che punto è arrivata?
«Intanto va detto che con l’arrampicata è arrivato un vero e proprio cambiamento, che non mi sarei aspettata, perché è uno sport che prevede veramente l’unione tra la tue capacità fisiche e mentali, uno sport di concentrazione, di attenzione, di gestione di un sacco di paure e di ansie che non pensavi neanche di avere. Sono psicoterapeuta, quindi arrivando così tardi ho pensato che avrei avuto tanto da recuperare a livello di tecnica, ma di essere molto avvantaggiata sulla parte psicologica. Invece no, a livello psicologico è stato veramente un cercare di gestire un arcobaleno di emozioni che ti dà anche tante soddisfazioni. Quando sei in parete non pensi veramente a nient’altro perché devi solo stare attenta a non cadere e a seguire la forma della roccia. È uno sport bellissimo perché tutte le volte ti trovi un percorso diverso da fare quindi devi fare una “lettura” della parete, ed è affascinante. Da ottobre/novembre mi sono impegnata ad allenarmi sempre di più; tra l’altro una volta al mese vado tre giorni ad Arco dove mi allenano degli allenatori che sono specializzati nel paraclimbing. E il 15 giugno è finalmente arrivata la divisa della Nazionale, lo stesso giorno del campionato italiano. Dove sono arrivata prima anche perché fondamentalmente ho gareggiato con me stessa, essendo l’unica donna della mia categoria, quella degli amputati».
Fiamma, lei oggi è una persona realizzata, tra l’altro madre di una figlia di 21 anni, che ha adottato quando ne aveva 12. Ma se si volta indietro cosa vede?
«Vedo una vita che fino all’amputazione è stata tremenda, davvero tremenda: non tornerei indietro neanche se mi pagassero. Ho avuto quattro interventi dai sei mesi ai due anni in Inghilterra per l’impianto di tutori che mi permettevano di stare un po’ in piedi, poi altri due. Non sono stata bullizzata, questo no, ma la diversità l’ho patita eccome, semplicemente per gli sguardi delle persone. Mi sentivo totalmente diversa; che questo poi non voglia dire negatività lo capisci solo dopo. Una diversità faticosa, che paradossalmente ha a che vedere anche con il mio amore per l’arrampicata, che risale alle elementari, quando guardavo a ricreazione tutti i bambini arrampicarsi sulle apposite strutture del giardinetto, tutte colorate, mentre la suora mi teneva accanto a sé e diceva agli altri di non venirmi vicini per non farmi cadere. I miei genitori mi hanno portata ovunque, dopo l’Inghilterra siamo stati in Spagna, Russia, Francia per vedere cosa si potesse fare ed è venuto fuori che la cosa migliore era l’amputazione a fine sviluppo, quindi verso i 21 anni, ma io a 17 non ne potevo più e quindi l’abbiamo fatta. Ed è stata una liberazione».
Da cosa in particolare?
«Dal vivere in quella maniera, con quei pantaloni sempre larghi… Ora vanno di moda ma allora usavano solo i fuseaux, solo le minigonne. Dopo l’intervento mi ricordo che buttai via tutto e acquistai calze, scarpe col tacco, stivali, vestiti e anche ora mi vesto come voglio e mi metto tutto».
Come vive il rapporto con la protesi?
«Prima era un cercare di mascherare il più possibile. Adesso no. Per l’estate mi sono fatta fare una protesi totalmente dorata, con i brillantini, proprio una cosa esplosiva, si vede così tanto che è una protesi che nessuno ti dice niente o ti chiede che cos’hai, anzi ti guardano ancora con più ammirazione».
Insomma lei è una donna che non molla mai…
«È vero. Già da prima di avere la protesi cercavo di fare le cose più spericolate di nascosto, come andare a cavallo o sul sedile posteriore di un motorino, ovviamente senza casco: ho fatto tutte le cose peggiori. Oggi in parete sento ancora la voce di mia mamma che diceva “stai attenta, non farti male”, e attenta lo sono, certo. Ma dopo gli allenamenti, più lividi e ferite ho, meglio è. Sì, perché ho vissuto, ho capito: sono caduta e non mi sono fatta niente. L’importante poi è rialzarsi».

Fiamma, Gianni Morandi diceva «Uno su mille ce la fa / ma quant’è dura la salita…»

«Ora la salita è più bella, perché la salita della vita non c’è più, c’è l’arrampicata, che è comunque salita ma è più emozionante. Hai più grinta, più coraggio e la paura giusta, perché anche quella ci dev’essere, ma quella paura che ti mette ancora più voglia».