Opinioni & Commenti
La storia dà ragione al Concilio
Il colloquio del 1958 era presieduto dal principe ereditario del Marocco, il futuro re Hassan II. Quando venne la notizia del malore mortale che aveva colpito Papa Pacelli tutti i presenti vennero invitati a pregare, ciascuno a suo modo. E all’annuncio della morte La Pira, a suo modo improvvisando, commentò: «E noi, adesso che cosa faremo? Con la nostra preghiera accompagneremo gli angeli che porteranno il Papa in Paradiso. E con la preghiera accoglieremo il nuovo Papa che verrà e sarà il Papa dell’Occidente e dell’Oriente, del Nord e del Sud ed estenderà a tutti i popoli la benedizione di Abramo». Quasi un preannuncio di Papa Giovanni.
Per il conclave il piccolo e battagliero giornale fiorentino dei miei esordi mi spedì a Roma. Fumata bianca, habemus Papam, Angelo Roncalli. E fui meno sorpreso di altri cronisti assai più esperti di me. Sempre da La Pira colsi il primo giudizio sul Concilio appena convocato. Lo avevo accompagnato a Mosca per il suo «ponte di preghiera e di pace fra il santuario occidentale di Fatima e il santuario orientale di San Sergio». Ripeteva che l’ateismo imperante da quelle parti sarebbe inevitabilmente caduto e invitava l’esterrefatto Krusciov a «tagliare il ramo secco dell’ateismo» se veramente voleva la coesistenza e la pace. E indicava proprio nel Concilio l’annuncio dei tempi nuovi. Ricordo le insistenze soprattutto rivolte ai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa: «Il Concilio è il segno dei tempi di un’epoca nuova nella quale scompare la guerra, fiorisce la pace, emergono i popoli, si unifica il mondo, crollano le ideologie ed emerge ogni giorno di più sul mondo, quasi per illuminarlo, la Chiesa».
Una delle tante utopie lapiriane? Può darsi. Ma come negare, dopo le quattro sessioni conciliari e quarant’anni dopo, che la tendenza storica e religiosa di fondo del Concilio sia andata proprio in queste direzioni di «cosiddetta utopia»? Il Concilio, inoltre, ha portato un cambiamento decisivo nella comunicazione della Chiesa e nella Chiesa. Dalla seconda sessione in poi ne feci personale esperienza essendo passato a lavorare, a Roma, per L’Avvenire d’Italia e mentre, dopo i rigorosi segreti che avevano accompagnato la prima sessione, si passò a un’apertura che in quel tempo ci sembrò straordinaria. Sette gruppi linguistici informavano ogni giorno i cronisti su quanto accadeva nell’aula. Nel gruppo italiano, composto dal Vescovo di Livorno monsignor Pangrazio (ossia da un «padre conciliare»), dal teologo Sartori e da Padre Tucci de La Civiltà cattolica (oggi Cardinale).
Si lavorò con rispetto delle esigenze di ciascuno a cominciare dalla pubblica opinione. E si dette, mi sembra, un’informazione completa e corretta. Resta, nella memoria, la sola occasione che consentì anche ai cronisti di entrare nell’aula conciliare. Il ritorno di Paolo VI dal viaggio a New York per portare alle Nazioni Unite il messaggio di fondo «mai più la guerra». L’esile Papa Montini che attraversa a piedi la navata della Basilica fra gli applausi. L’impegno preso. «Avendo noi parlato della pace alle Nazioni Unite, l’intera Chiesa si è impegnata ad essere operatrice di pace perché la parola data impegna ».
Il discorso del Papa all’Onu viene inserito fra gli atti del Concilio. Quasi a preludio del lungo pontificato di Giovanni Paolo II che, portando i nomi del Papa che ha indetto il Concilio (Giovanni) e del Papa che l’ha concluso (Paolo), ha portato anche a compimento, a cominciare dall’impegno a operare per la pace, tante «utopie» della straordinaria stagione conciliare. E c’era, in quel tempo, anche un giovane consulente ed esperto che accompagnava il Cardinale Frings il quale aveva dato inizio, rifiutando gli schemi e documenti prefissati, al dialogo della Chiesa e nella Chiesa. Quel giovane teologo Joseph Ratzinger. Benedetto XVI.