Opinioni & Commenti

La stato della cultura in Toscana? Più a terra della «porcacchia»

di Franco Cardini

Parlare di cultura sui giornali, all’inizio del nuovo anno, appartiene alle buone vecchie cose di pessimo gusto che non servono a nulla. Come i proponimenti di essere più buoni, più pazienti, più ordinati, meno pigri eccetera. Ma lo fanno tutti. Chi siamo, per non farlo anche noi? Ma proviamo almeno a farlo senza conformismi e senza ipocrisie. Che dovrebb’essere il meno, su un giornale cattolico: e invece è difficilissimo. In fondo, un pizzico d’ipocrisia è un ingrediente fondamentale della buona educazione e della convivenza civile. Credo che, sul piano teologico, sia un peccato molto veniale.

Cominciamo dunque con due affermazioni. Primo: lo stato generale della cultura in Toscana è pietoso. Secondo: ciò è ovvio, e direi che non è nemmeno preoccupante. Vediamo come e perché.

Vediamo la prima questione. Culturalmente la regione è, come dicevano i contadini una volta, «più a terra della porcacchia», cioè della zolla. A livello universitario, editoriale, massmediale.

Le tre università – Firenze, Pisa, Siena – sono asfittiche, screditate e sull’orlo della bancarotta. Pare che nel 2010 potrebbero perfino cessar di pagare gli stipendi e chiudere i battenti: certo, ci saranno i soliti salvataggi dell’ultim’ora. Ma chi saranno i salvatori? E a quale prezzo? Che cosa c’è da aspettarsi non diciamo dal governo centrale – il presidente del consiglio notoriamente ci trova antipatici, e ha perfino proposto di «stoscanizzare l’Italia» –, ma anche dalle amministrazioni regionale e provinciali (queste ultime a loro volta in liquidazione)? Non potendo contare sul sostegno pubblico, restano i privati. Quali? Rivolgersi alla Santa Cassa di Risparmio o al Beato Monte dei Paschi costituisce antica e consolidata risorsa, alla quale tutti ricorrono: organizzatori di mostre, editori e così via. Con risultati, diciamo la verità, sconsolanti: gli istituti di credito s’impegnano, è vero, e a tale uopo ci sono apposite Fondazioni che li appoggiano. Ma come avviene la selezione delle iniziative da sostenere? Chi la organizza, con quali criteri, con quanta competenza, con quali garanzie di opportunità e di equità? L’impressione che se ne ricava è che talvolta si spenda troppo per cose che non varrebbero la pena e che si tralasci al contrario il sostegno a iniziative e a idee importanti. Perché? È molto semplice: il fatto è che i competenti dei vari settori, quelli che dovrebbero essere chiamati a decidere su qualità e opportunità delle spese, sono quasi regolarmente, invece, i proponenti, cioè i postulanti: e le loro competenti proposte culturali vengono esaminate da illustri e autorevoli signori versati nel diritto, nelle finanze, nell’amministrazione, nell’arte dei contatti con la politica, ma che di faccende culturali in realtà capiscono tanto quanto io, che faccio il professore di storia medievale, m’intendo di cibernetica o di patafisica.

Ecco perché godiamo di una piacevole alternanza, ad esempio, tra mostre o convegni o comunque «eventi» di poco valore e di poca originalità ben finanziati, magari fin troppo, e mostre, convegni o «eventi» che nascono e vivacchiano asfittici. Siamo in una regione dove ci sono soldi, e magari nemmeno sempre tanto pochi, e idee: ma chi gestisce i primi non riesce a individuare chi ha le seconde, o almeno chi le ha migliori; e chi ha queste, non riesce a farsi ascoltare da chi dispensa quelli. Il rimedio? Consisterebbe nel convincere politici e imprenditori a rivolgersi ai competenti nei diversi rami della cultura per consentir loro di far le scelte che contano, anziché costringerli a mendicare. Ma per far questo bisognerebbe rompere la logica delle cordate, delle lobbies, delle «camarille». Improponibile: dal momento che non viviamo affatto in un regime meritocratico, bensì in una rigorosa portaborsecrazia, dove chi ha un po’ di potere si costruisce attorno élites di fedeli yesmen badando bene di scartare chi dimostri un po’ di coraggio, di cultura e di spirito indipendente.Editoria. Si dia un’occhiata al livello delle nostre televisioni, dai programmi generali dei grandi networks alle emittenti regionali: qual è il «ventaglio» delle loro proposte culturali? Se vi sembra miserabile (e avete ragione), provate un po’ a farvi una seconda domanda: se un’emittente provasse ad alzare un po’ il tono culturale, magari mettendo in onda cinema di qualità o organizzando dibattiti seri, l’opinione pubblica lo seguirebbe? Forse sì: ma il punto è che le statistiche amministrate dagli istituti statistici incaricati di rilevare gli shares, gli «indici d’ascolto» e via dicendo sulla base di «campioni» di pubblico scelti a loro ohimè insindacabile giudizio assegnano sempre punteggi di basso gradimento al cinema, alla prosa, alla musica classica, ai dibattiti culturali, ai programmi di promozione libraria (dove di solito si presentano i libri degli amici ecc.); e che le imprese che si rivolgono alle emittenti per la loro pubblicità commerciale danno ascolto a quelle indicazioni. Ergo, le emittenti non fanno cultura per paura di abbassare gli ascolti e quindi perdere pubblicità. Magari, ciò non sarebbe vero: ma esse non se la sentono di rischiare.

E non parliamo dell’editoria relativa alla carta stampata: le «terze pagine» e i «paginoni culturali» sono quasi scomparsi dai quotidiani, gli editori toscani una cinquanta-trentina di anni fa erano molti e autorevolissimi (due soli casi: la Sansoni e la Nuova Italia) e oggi sono ridotti di numero e di fatturato, a parte il proliferare di nuove case editrici che reggono lo spazio di un mattino. Le grandi forme storiche, come Vallecchi o Salani, sono ridotte a quasi nulla o stampano libri a pagamento degli autori o pubblicano «Grandi Opere» di quelle che si vendono a rate col sistema porta-a-porta. Nascono certo molte nuove librerie, magari con locale-bar o caffè annesso, secondo un simpatico modulo europeo o americano. Ma molte di loro solo ormai ridotte alla vendita seriale di libri-gadgets.

E il fenomeno, badate, dilaga in tutto l’Occidente perché la gente legge di meno e non riesce a selezionare le proprie letture. Il che è del tutto normale in un paese nel quale la scuola non funziona più e i partiti politici – che una volta si vantavano di «fare cultura» anche quando non era vero – diffondono con orgoglio l’immagine di un cittadino fiero della propria ignoranza. Dove sono i dibattiti, i cineclubs e i cineforum, le serate culturali che una volta erano vanto anche delle più piccole sale parrocchiali e delle più modeste case del popolo?

Ma questa lunga lista di lamentele rischia di trasformarsi in un inestricabile garbuglio di denunzie, se non si trova il bàndolo della matassa. Che sta in questo: la decadenza d’una società civile che ha accettato di contribuire allo smantellamento del suo sistema di educazione pubblica screditando o accettando che venissero sistematicamente screditate nell’ultimo quarantennio scuola e università e che la politica si trasformasse gradualmente in «spettacolo», sino a rendersi complice di un sistema in cui si inviano in Parlamento le soubrettes solo perché «hanno visibilità» e quindi «prendono voti».

È dunque necessario riqualificare il livello culturale della società civile. E il bello è questo: che essa, magari oscuramente e disordinatamente, non chiederebbe di meglio. Di recente, al cinema Odeon di Firenze, si è tenuto un ciclo di conferenze domenicali sulla storia cittadina. Ebbene: la gente ha quasi fatto a pugni per entrare. I pomeriggi di «Leggere per non dimenticare» di Anna Benedetti sono sempre un successo. Anche le mostre registrano spesso lunghe code di visitatori. Il che significa che esiste una forte anche se indisciplinata domanda di cultura. Sono i politici e gli amministratori che a questo punto dovrebbero rispondere organizzando un’offerta tecnicamente efficace e qualitativamente alta, senza puntare esclusivamente sul «grande evento» e senza farsi condizionare dai tabù ideologici o postideologici.

Per far questo, però, ci vuole un certo livello di cultura personale e un certo grado di coraggio e di libertà. Ne dispongono, i signori e le signore e/o signorine che le segreterie dei partiti, dotate degli strumenti loro messi a disposizione dai sistemi di «democrazia avanzata» (leggi oligarchia) hanno preposto – di solito senza ascoltare le rispettive basi – alla guida della regione?