Opinioni & Commenti
La stanchezza di Napolitano e quella del Paese
Nel prendere commiato dall’opinione pubblica del Paese, Giorgio Napolitano (leggi articolo) ha ceduto per un attimo al legittimo desiderio che hanno tutti i politici a fine carriera: quello di dettare loro, in fondo, l’agenda agli storici che saranno chiamati a giudicarne l’operato. È stato quando, giunto più o meno ad un terzo del suo discorso di fine anno, ha detto di potersi permettere un addio dettato dalla stanchezza: visto lo stato avanzato delle riforme, la precondizione da lui posta prima di accettare la rielezione è stata di fatto esaudita. Conto chiuso, allora, e corsa finita.
Con questo bilancio Napolitano intende essere ricordato. Ma lui stesso, nelle pieghe di un discorso senz’altro sentito quanto sincero, ha fornito un altro paio di elementi utili ad una riflessione sull’attuale situazione della democrazia italiana. Ad esempio, il Capo dello Stato ha ammesso con grande sincerità il sostanziale fallimento delle politiche di stimolo all’economia avviate dagli ultimi governi (vale a dire: Monti, Letta e lo stesso Renzi). Tutti governi che recano molto riconoscibile, assieme al sigillo dei vari presidenti del consiglio, quello del Quirinale. Ugualmente, la crisi sociale non appare avviata verso la soluzione, con il suo corredo di tensioni e inevitabile distacco dell’opinione pubblica non solo nei confronti di una politica incapace di risolvere i problemi, ma delle stesse istituzioni democratiche.
Altra questione lo stato delle riforme, che hanno doppiato solo la prima boa delle quattro che sono poste sul loro cammino. Questo vuol dire tempi ancora presumibilmente lunghi, perché alla prima variazione del testo si tornerà indietro come in un gioco dell’oca. Senza considerare, poi, che senza un’approvazione finale con la maggioranza dei due terzi si avrà probabilmente un referendum confermativo dagli esiti ad alto rischio, come quello che affossò la revisione del Titolo V, voluta da Berlusconi. C’è poi il richiamo del Presidente alla rinascita morale del Paese. Se la società civile fa a gara con quella politica a chi ha più marciume al suo interno, questo non è certo responsabilità dell’inquilino del Quirinale. Ma che la cosidetta Seconda Repubblica si avvii al tramonto con l’inchiesta sulla mafia a Roma è di fatto una pesante sconfitta per tutti.
Economia in difficoltà, crisi morale, riforme lontane e dai contenuti molto incerti: a ben vedere, si capiscono le ragioni della stanchezza di Napolitano.
In particolare il clima politico è frammentato ai limiti dello sfarinamento. Tanto che solo un colpo di scena (mai da escludere, del resto, in politica) porterà ad una rapida elezione del prossimo Capo dello Stato. Chiediamoci allora se non sia da avviare una riflessione più profonda. Chiediamoci se le risposte finora date a questa crisi generale siano le risposte giuste. Finora il quadro istituzionale ha visto un aumento della tendenza ad indebolire il Parlamento in favore del governo, quello politico a sminuire la forma partito in favore della concezione leaderistica della rappresentanza (la cosa vale anche per l’Italicum). Questo ha portato non all’avvio di interventi concreti in materia economica, ma prima ad un rigore fine a se stesso ed ora a forme di intervento giudicate da più parti come degne di Juan Domingo Peron. La società civile naviga, di conseguenza, tra la fuga dalle responsabilità nei confronti del bene comune ed una adesione sempre più flebile nei confronti delle istituzioni democratiche.
La realtà è che l’Italia di oggi somiglia molto a quella del 2013, se non addirittura del 1992. Allora Oscar Luigi Scalfaro si rivolse agli italiani, nel suo primo messaggio di fine anno, rassicurandoli: «L’Italia ce la farà». Erano i tempi bui di Tangentopoli e dell’uscita della lira dallo Sme. Il prossimo presidente, che forse uscirà solo al termine di una lotta lunga e defatigante, dovrà essere capace di infondere la stessa fiducia. Ma prima sarà necessario ripensare alle radici profonde di un declino che non sembra destinato a fermarsi presto.