Lettere in redazione
La sorpresa del Dante di Benigni
Ricordo bene, caro Andretti, le perplessità e anche le critiche che accompagnarono l’iniziativa del Comune di Firenze di far leggere e commentare da Roberto Benigni alcuni canti dell’Inferno dantesco. C’era il rischio si diceva della banalizzazione, dovuta soprattutto al fatto che si metteva la «Divina Commedia» nelle mani di «un comico». Il pubblico (pagante) che affollò con più di 5000 presenze Piazza S. Croce non fu di questo parere, anzi si entusiasmò perché percepì che «la poesia di Dante aveva il grande dono di tirar fuori i sentimenti che noi non siamo capaci di tirar fuori». E quindi poteva parlare anche oggi a ciascuno di noi.
La Tv ha riproposto purtroppo a tarda ora queste serate fiorentine con la sola lettura-commento, liberandole cioè da quella parte dedicata alla satira.
Io ho seguito mercoledì 13 febbraio l’ultima, quella in cui Benigni legge, spiega e commenta il 33 dell’Inferno, il canto del Conte Ugolino.
E mi è piaciuto moltissimo sia per la spiegazione precisa ma non pedante e lo sforzo di avvicinare al testo, ma soprattutto per la capacità di cogliere appieno e trasmettere il dramma dell’impotenza di un padre, di fronte al dolore dei figli e nipoti. Dramma che emerge tutto in quel verso che Benigni ha più volte ripetuto: «Padre mio, ché non m’aiti?».
Ma in queste letture si coglie bene il messaggio cristiano che Dante ci trasmette. E lo spettatore-ascoltatore è portato a riflettere sulle grandi verità della fede. E così in questo canto 33 Benigni evidenzia come il ghiaccio che attanaglia queste anime altro non simboleggia che la conseguenza del rifiuto dell’amore.
L’Inferno e non solo quello con la lettera maiuscola è davvero il «non amare più», secondo la bella (e vera) definizione del Curato di Bernanos.
Al di là quindi delle riserve dei dantisti, alcuni forse anche giuste, ben vengano queste moderne «Lecture Dantis» di Benigni, di Vittorio Sermonti e di altri che ci riconsegnano un patrimonio culturale che non è né può essere solo per pochi addetti ai lavori. Del resto la «Divina Commedia», come tante altre opere della grande letteratura, non fu scritta per loro.