Opinioni & Commenti

La sofferenza può unire a patto di non dimenticare quella altrui

di Giuseppe SavagnoneA qualcosa di essenziale il sacrificio degli italiani, a Nassiriya, è sicuramente servito: per la prima volta, forse, dopo tanti anni, il senso di appartenenza alla patria si è potentemente risvegliato e ha restituito a tutti la fierezza della nostra identità nazionale. È questa la prima constatazione che si impone all’osservatore, davanti alla unanime reazione di un Paese che sembrava aver dimenticato la propria tradizione e dove il tricolore sventolava ormai solo in occasione delle partite internazionali di calcio. Non si è trattato soltanto dell’orrore per una strage che ha stroncato diciannove giovani vite.

Morti ce ne sono stati tanti, anche italiani, in altre occasioni, senza che nulla di simile si verificasse. Questi sono diventati un simbolo, intorno a cui ci siamo sentiti tutti affratellati. Le centinaia di migliaia di persone in coda davanti al Vittoriano, le spontanee manifestazioni di sincero dolore provenienti da tutte le parti d’Italia, senza distinzioni di ceti sociali o di militanze politiche, la tregua subentrata perfino tra i partiti, dopo mesi di estenuante conflittualità, sono una dimostrazione dell’ampiezza e della profondità di questo sentimento comune di italianità.

Una prova di quanto diciamo è la decisione della Rai di sospendere la trasmissione di spot pubblicitari per tutta la giornata di martedì e quella delle altre Tv di adottare questa stessa misura almeno per il tempo dei funerali. Se perfino il potere indiscusso del dio denaro è stato scosso, ciò che si è verificato costituisce davvero una svolta. Certo, non si può negare che questo coinvolgimento del Paese si sia realizzato a livello prevalentemente emotivo, con l’aiuto di una retorica che i mezzi di comunicazione hanno abbondantemente sfruttato per aumentare l’audience o la tiratura. Giornalisti, conduttori televisivi, esperti hanno imperversato ininterrottamente sulle scene televisive e sulle pagine dei giornali, tutti a caccia di un’intervista a madri, padri, fratelli e sorelle, figli, cugini delle vittime, nel tentativo di strappare una frase o una lacrima che potessero colpire il pubblico.

Non a caso lo si chiama «giornalismo-spettacolo». Ma c’è da chiedersi se il diritto all’informazione comporti anche questo scadimento, che nega anche alla morte il silenzio e il riserbo a cui avrebbe diritto. Ancora una volta abbiamo visto all’opera uno stile – ormai abituale in certe seguitissime trasmissioni televisive – che offende il pudore ben più dell’esibizione di qualche parte del corpo, perché, per scuotere, mette a nudo le anime.

In questo clima, il rischio che si corre è di mettere fuori gioco la ragione e di confondere la ritrovata unità nazionale con l’allineamento acritico su posizioni manichee: noi il bene, gli «altri» il male. Il rispetto per i nostri morti comporta il superamento delle risse indecorose a cui ci eravamo abituati, non la rinunzia alla riflessione e a un onesto confronto su ciò che sta accadendo. Guai se la riscoperta della nostra identità, nata nel clima del dolore, dovesse venire strumentalizzata per avallare una conflittualità con il popolo iracheno e, più ampiamente, con il mondo islamico, semplicisticamente ridotti a «nemici» o a «barbari» da civilizzare loro malgrado. Anche molte madri di Nassiriya hanno perduto, nei mesi scorsi, i loro figli, e molti bambini i loro padri, tutti spazzati via dalla furia di questa guerra. La sofferenza può dividere, ma anche unire. E il modo migliore per essere finalmente noi stessi è, mentre viviamo la nostra, di non dimenticare quella degli altri.

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