In questo scorcio di primavera si è tenuta il 3 maggio nel territorio di Sestino la festa della Santa Croce legata al mondo contadino che ha tradizioni antiche. I campi sono giardini sonnolenti, che vibrano di colori in attesa. Cerco il sole per un accordo con gli occhi ma è rintanato tra nuvole basse. Il 3 maggio, un tempo, era un giorno di religiose premure. Già prima si preparava sull’aia un bel numero di virgulti in succhio, soprattutto orniello, si «scorticava» per farlo bianco e lucido il «bifolco» col coltello a punta apriva il varco nell’asta e vi inseriva un «braccio»; la croce era pronta. All’uscita della Messa, con il mannello di foglie lanceolate dei «gigli» o gladioli ( specie oggi in estinzione, che resiste ai bordi dei campi e tra le siepi «vive») la croce veniva decorata con il giglio e un rametto di olivo. E il bifolco partiva con il grappolo di croci sulle spalle per i campi lavorati a grano, a biade, a patate e nell’orto che amoreggiava con le mura della casa. Era la benedizione portata a spalla. Era la «fede» che sfidava i venti, la grandine, i fulmini, le tempeste. Era la sicurezza che notte e giorno proteggeva e benediceva contro le forze maligne. Nei giorni caldi della mietitura la croce era ancora accarezzata dagli sguardi, poi issata sul «cavalletto dei covoni» (vecchie architetture di un mondo costruito a mano), e poi issato sul «barcone» nell’aia fino al giorno della battitura. Era un simbolo guardato a vista, portato nel cuore. Don Pio Gabiccini, il parroco di oggi, ha benedetto sparuti fastelli di gigli. Vado per viottoli e sghimbesce strade comunali. In basso, lungo il Foglia, tappeti di verdi sfumati, lastricati di colori variegati. Anche i travertini di muschio vorrebbero fiorire. Le acacie sventolano bandiere di bianco. I lillà li confondono con il rosa. Le erbe «autonome», che si intrugliano tra le sementi, sono tappeti leggeri che confondono gli sguardi. A San Donato, già tra un primo grano che promette spighe, ecco la croce: è sul poggello che degrada e sorveglia la piaggia levigata dal lavoro dell’uomo e della macchina. A Monterone, dove la campagna si atteggia a «pianura», i campi sono più intensi e con meno pasture, conto con gli occhi le croci fresche e profumate ancora di preghiere sommesse. Salgo verso le alture montane di Casale e Martigliano: qua e là si ergono croci, infisse sulla terra fangosa con l’impronta dello stivale. Vado ai ricordi. I numeri oggi non hanno scrittura lunga ma anche i lavoratori sono «mannelli» di pochi numeri. Ma la Santa Croce è lì ancora a guardare le loro fatiche. Discendo con la nebbia alle spalle e le nuvole che gettano inverno bagnato addosso. Ora l’asfalto fa scivolare leggero. È il mondo del lavoro in fabbrica, della modernità fiorita in montagna. Accanto al grande impianto del mobilificio «Fogliense», un campetto si arrampica fino ad una antica casa-torre. E lì una croce. Guarda tutto, sono convinto: il grano della terra e le filiere dei nastri trasportatori. È il lavoro dell’uomo. Le «vigne» sono variegate ma il «padrone» del Creato sorveglia su tutto. Non è solo religiosità di un mondo contadino.Giancarlo Renzi