Firenze

La proposta: a Firenze non una sola, grande moschea ma tanti (piccoli) luoghi di culto islamici

di Riccardo Bigi

Il dibattito sulla costruzione, a Firenze, di una moschea è partito, forse, con le domande sbagliate. Si parla del come costruirla, del dove. La prima questione che invece deve essere chiarita, per poter poi rispondere anche agli altri interrogativi, è sul perché. E quindi anche sull’opportunità o meno di pensare oggi, nel contesto in cui ci troviamo, ad una simile realizzazione.Perché, dunque, una moschea? La prima esigenza da cui può nascere una richiesta di questo tipo è, evidentemente, quella della libertà di culto. Il rispetto della libertà religiosa è un principio universale e irrinunciabile; un principio che la Chiesa afferma con forza, anche pensando ai tanti cristiani che non possono liberamente esercitare la propria fede, o addirittura perseguitati a causa di essa. Proprio perché si tratta di un principio assoluto, non si può subordinarlo, come a volte verrebbe spontaneo fare, a una questione di reciprocità: negare la costruzione di moschee finché non sarà concessa la possibilità di costruire chiese in paesi a maggioranza musulmana  che oggi negano questo diritto.Il principio della libertà religiosa impegna le istituzioni, perché significa dover offrire ad ogni persona e ad ogni comunità le condizioni per poter esercitare il proprio culto e professare la propria fede. Ma è un principio che impegna anche chi ne usufruisce: la comunità che chiede uno spazio per pregare si assume anche delle responsabilità, ad esempio da quella di vigilare perché alle attività religiose non facciano da contorno attività di propaganda antioccidentale o di incitazione al terrorismo, o di semplice impermeabilità rispetto al contesto sociale esistente e al luogo dove nascono. La moschea non può essere assimilata semplicemente alla categoria dei «luoghi di culto», essendo nella concezione musulmana un centro di aggregazione con valenze culturali, sociali e politiche. Alle istituzioni pubbliche spettano il compito e la responsabilità di verificare attentamente quali attività si intendono svolgere nei locali che verranno utilizzati per quella che genericamente viene definita «moschea», chi sono i responsabili, chi gestisce, chi controlla, chi la finanzia soprattutto nella fase di costruzione. Perché rispondere con trasparenza a queste domande è doveroso per offrire garanzie alla città, ai suoi abitanti ma anche e soprattutto a coloro che frequenteranno quel luogo. Permettendo un percorso di integrazione fra le varie realtà esistenti e diventando anche un ottimo antidoto contro chi, magari animato da sentimenti razzisti, tende a identificare qualsiasi luogo di preghiera dei musulmani come una potenziale base terroristica o comunque con un luogo da considerare con sospetto piuttosto che con il dovuto rispetto.Dietro la richiesta di una nuova moschea però c’è anche un’altra motivazione. Gli edifici religiosi portano in sé anche un valore simbolico: sono segni chiari e visibili di un modo ben preciso di intendere il sacro. Pensiamo a una comunità cristiana minoritaria, in un qualsiasi Paese del mondo, che sia costretta a riunirsi per la liturgia in una sala anonima e priva di simboli: è facile pensare che quella comunità coltivi il sogno di poter avere, un giorno, non solo uno spazio che svolga la funzione di aula liturgica, ma un edificio che abbia anche l’«aspetto» di chiesa, secondo quei canoni sedimentati attraverso secoli di tradizione. Anche la richiesta, quindi, di avere non solo un ambiente sufficientemente capiente in cui riunirsi, ma uno spazio costruito appositamente per il culto, un simbolo visibile e riconoscibile della propria presenza in città, è una richiesta comprensibile e legittima. È su questa seconda motivazione, però, che vale la pena riflettere a fondo.Può essere suggestivo immaginare che un giorno, guardando i «tetti» di Firenze dalla terrazza di San Miniato, si potrà vedere insieme alla cupola del Duomo, e in mezzo a tanti campanili, oltre alle cupole verdi della sinagoga, anche la cupola di una moschea o lo svettare di un minareto, cogliendo in quell’immagine non l’impressione di una contrapposizione ma un senso si serenità, di concordia tra i figli di Abramo, di unità della famiglia umana. È già arrivato quel giorno? Sono maturi i tempi per questo?Le prime comunità cristiane si sono formate a Firenze nel terzo secolo, e hanno atteso mille anni prima di costruire la cattedrale di Santa Maria del Fiore. La comunità ebraica vanta una presenza a Firenze, pare, già in epoca romana, e nel corso dei secoli ha avuto vari luoghi di culto: solo nel 1868 però è nata l’idea di una sinagoga monumentale, la cui costruzione è terminata nel 1882.Non si tratta, ovviamente, di «mettersi in lista d’attesa». Si tratta dell’inserimento di una comunità religiosa nel tessuto sociale e culturale, nel convivere civile; si tratta dell’esser parte di una storia. Si tratta del garantire, ad esempio, la condivisione di alcuni principi e valori su cui si fonda la convivenza civile stessa. Questa attesa di un maturare dei tempi, di uno scorrere del fiume della storia verso acque, anche a livello mondiale, più tranquille, potrebbe intanto vedere la nascita non di un’unica, grande moschea ma di piccoli spazi di culto islamici sul territorio non solo cittadino, ma provinciale: luoghi diffusi a livello di quartiere o di piccolo comune che potrebbero permettere, ad esempio, di stringere legami di dialogo con le parrocchie vicine e con gli enti locali. D’altra parte esistono spesso nelle città dei Paesi musulmani dei piccoli «luoghi di preghiera», chiamati musallâ. Sono delle specie di «cappelle» che possono contenere qualche decina di fedeli e che si trovano spesso al pianterreno di una casa, al posto di un appartamento. Intraprendere questa strada permetterebbe anche il rispetto delle varie espressioni dell’islam, assolutamente non riducibili ad una visione  monolitica. Un’idea, quella dei piccoli luoghi di culto islamici diffusi sul territorio, che don Giovanni Momigli, direttore dell’Ufficio di pastorale sociale, ha avanzato già nei mesi scorsi, e che risponde alla linea che lo stesso don Momigli ha sempre portato avanti sul tema più generale dell’immigrazione: evitare il rischio di creare comunità chiuse, evitare le grandi concentrazioni etniche, favorire invece la diffusione sul territorio, che è la strada più efficace per l’integrazione e l’inserimento nella società. Se questo vale per gli aspetti economici e culturali, non potrebbe essere il principio da seguire anche in campo religioso?