Italia
La priorità ora è la legge elettorale
Sono stati 33.243.845 gli italiani che domenica 4 dicembre hanno partecipato al referendum costituzionale. Quasi il 70 per cento degli aventi diritto (68,48 per la precisione, 65,47 se tiene conto anche dei votanti all’estero). Il No ha ottenuto il 59,11 per cento, il Sì si è fermato al 40,89. Raramente nella storia della Repubblica una consultazione popolare ha fornito risultati così netti e così rilevanti. E se il responso delle urne per una volta non lascia spazio ad ambiguità su chi abbia vinto e chi abbia perso, il dato dell’affluenza al voto «è la testimonianza di una democrazia solida, di un Paese appassionato, capace di partecipazione attiva», per usare le parole del presidente Mattarella. Che nella nota diffusa dal Quirinale aggiunge: «Occorre che il clima politico, pur nella necessaria dialettica, sia improntato a serenità e rispetto reciproco. Vi sono di fronte a noi impegni e scadenze di cui le istituzioni dovranno assicurare in ogni caso il rispetto, garantendo risposte all’altezza dei problemi del momento». Da un altro punto di osservazione, ma sulla stessa lunghezza d’onda, le parole del cardinale Bagnasco raccolte dai cronisti a margine di una celebrazione a Genova: «Adesso è il momento di una grande responsabilità, a tutti i livelli, è l’ora di camminare insieme», ha detto il presidente della Cei.
Ci vorrà del tempo per analizzare una consultazione così importante e coglierne tutte le implicazioni.
Colpisce immediatamente la distribuzione dei voti, con il Sì che vince soltanto in Emilia-Romagna, Toscana e nella provincia autonoma di Bolzano e il No che prevale in tutte le altre regioni e tocca il 70 per cento in Sicilia e in Sardegna. Colpiscono anche le stime convergenti sulla preponderante opzione per il No da parte dei giovani, gli under 34, che a seconda delle rilevazioni oscillano tra il 68 e l’81 per cento.
Una prima lettura «a caldo» proviamo a farla confrontandoci con due costituzionalisti, Stefano Ceccanti ed Enzo Di Salvatore, che sono stati protagonisti della campagna referendaria, rispettivamente per il Sì e per il No. Ceccanti spiega l’affluenza così elevata e anche l’esito del voto con l’idea che il referendum «è stato come un’elezione politica e da elezione politica sono stati la partecipazione e i comportamenti degli elettori». «Noi – racconta – avevamo scommesso sul fatto che una parte significativa degli elettori del centro-destra avrebbe votato a favore della riforma che in una prima fase aveva condiviso e invece gli elettorati sono rimasti congelati nelle posizioni delle forze di riferimento».
Diversa l’interpretazione di Di Salvatore secondo cui «non c’è stata la vittoria di questa o di quella forza politica», ma i cittadini hanno fondamentalmente votato «sul merito della riforma». Di Salvatore afferma che il risultato «era prevedibile a patto di non sottovalutare l’esito del referendum del 17 aprile», quello sulle trivellazioni, in cui era mancato il quorum (si trattava di referendum abrogativo) ma i Sì erano stati oltre 13 milioni, praticamente lo stesso numero dei Sì alla riforma costituzionale, pur in assenza di investimenti pubblicitari e del tam tam dei mass media. Un altro elemento su cui riflettere è la nuova bocciatura di una riforma della seconda parte della Costituzione dopo quella del 2006. Dunque gli italiani non vogliono modifiche rilevanti alla Carta? «Rispetto al 2006 vedo una differenza», sottolinea Ceccanti, perché «quella volta Berlusconi aveva fatto la riforma da solo con la sua maggioranza, mentre in questo caso il primo voto parlamentare aveva registrato un’ampia convergenza, con il voto del centro-sinistra e di Forza Italia, poi c’era stata la rottura con Berlusconi sull’elezione del presidente della Repubblica e l’accordo era venuto meno». Resta il fatto, per Ceccanti, che «continuiamo a trascinarci dietro i problemi di funzionamento delle istituzioni che sono sotto gli occhi di tutti». «Non è vero che gli italiani non vogliono alcun tipo di riforma», puntualizza dal canto suo Di Salvatore, «vorrebbero piuttosto una riforma condivisa» e soprattutto «non vogliono la filosofia di fondo di questa riforma così come di quelle tentate in passato», una filosofia che – secondo il costituzionalista – pone il tema della governabilità in funzione del rapporto tra la politica e le esigenze dell’economia.
Su un punto i due studiosi convergono. «È indispensabile mettere mano alle leggi elettorali», afferma Di Salvatore, in quanto non si può pensare di tornare a votare con due leggi antitetiche per i due rami del Parlamento, tenendo anche conto che su quella della Camera (il cosiddetto Italicum) è atteso il giudizio della Consulta. «È un po’ una corsa contro il tempo», spiega Ceccanti, «la mia speranza è che si riesca a trovare in Parlamento una soluzione equilibrata, eliminando il ballottaggio dall’Italicum e introducendo almeno un premio di governabilità al Senato».