Vita Chiesa
«La preghiera? L’ho imparata in comunità…»
Una forte stretta di mano e una mia curiosità: «Allora come va? Famiglia, lavoro? Tutto bene?». E lo domando con il tono di chi vuole sentirsi rispondere: tutto bene. Non è però così.
«Certo non è un momento facile per nessuno, ci vuole pazienza» gli dico, pensando di diluire la sua tristezza in quella degli altri. «No! No! – mi interrompe subito – È solo il lavoro che va male, ma questo non mi scoraggia. Sono sicuro che Lui lassù non mi abbandona» e pronunciando queste parole mi invita a guardare in alto.
Non so se lo fa perché sono un prete oppure ne è convinto. Avverte comunque che rimango per un attimo disorientato e chiarisce: «Sono ormai tanti anni che sono in comunità con mia moglie. È lì che ho scoperto la Parola che ci salva e il valore della preghiera».
«In comunità»: l’espressione è tipica dell’esperienza neocatecumenale. Subito emergono in me quelli che credo i limiti di questa esperienza: non tiene conto della vita parrocchiale, considera gli «altri» come non cristiani, educa le persone con la paura, non c’è spazio per la libertà personale, è una strada a senso unico… Ma questi pensieri vengono interrotti: «Se non pregassi tutte i giorni con mia moglie e qualche volta anche con i bambini, il problema del lavoro rischierebbe di compromettere la nostra vita familiare. Lo viviamo insieme al Signore e questo grazie alla comunità». Non trovo in queste parole nessuna traccia dei limiti che ho pensato. E poi quando mai un battezzato parla così della sua parrocchia?