Cultura & Società
La politica sui social network. Fabris: «Solo un’illusione di democrazia»
«C’è un elemento nuovo che s’innesta su di un’esperienza antica. Nuovo è l’uso delle tecnologie, che permettono di raggiungere con un click un numero enorme di persone. Antico è il fatto che, proprio in quest’uso, risorgono forme comunicative ben note, come quella del comizio». È la riflessione di Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa, a proposito delle modalità attraverso le quali i social network stanno cambiando il modo di comunicare anche nella politica.
I social sono sempre di più uno strumento utilizzato per comunicare direttamente con l’elettorato. Come cambia la politica?
«Dobbiamo chiederci sia come sta cambiando la politica, sia come è cambiato il mondo della comunicazione. Le due cose sono infatti strettamente connesse. La politica – come modo di definire i rapporti interumani in uno spazio comune e secondo regole condivise – ha bisogno della comunicazione. Ne ha bisogno per acquisire, mantenere, consolidare il consenso. Finora vi erano determinati intermediari a cui far riferimento per raggiungere lo scopo: soprattutto i giornalisti della carta stampata e della televisione. Costoro non solo informavano, ma davano indicazioni su come interpretare le informazioni. Si trattava dei cosiddetti opinionisti. Oggi sta subentrando un rapporto più diretto tra politici ed elettori: quello reso possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in particolare dai social network».
È la rivoluzione della disintermediazione.
«Sembra cioè che si possa fare a meno di qualsiasi intermediario, e pure dei comunicatori come professionisti dell’intermediazione comunicativa, perché il politico è ormai in grado, attraverso un account social, di dire la sua direttamente. In realtà questi intermediari ci sono ancora. Il Papa o il Presidente della Repubblica non possono certo avere il tempo di chattare o di mandare un tweet. E tuttavia l’illusione di un contatto diretto permane».
Come leggere la violenza verbale e visiva adottata da certi politici e comunicatori?
«L’uso della violenza è indispensabile oggi per attirare l’attenzione. In un mondo in cui c’è un’overdose di comunicazione, l’unico modo per farsi notare è gridare. Da ciò nascono vari problemi. Il primo: ormai tutti urlano, e dunque il farlo non è più efficace. Meglio, a volte, un silenzio eloquente. Poi: la cultura dei social porta a una polarizzazione delle opinioni: o mi piace o non mi piace. Non c’è la possibilità di argomentare, di esprimere un giudizio sfumato. Da qui un terzo tema: la polarizzazione porta allo scontro. La violenza verbale o visiva prima o poi genera altra violenza, anche fisica».
Spesso si assiste anche a una comunicazione pubblica e privata attraverso lo stesso canale: si mostra l’attività istituzionale ma anche la cena con i figli. Perché?
«Questo è stato sempre fatto. Le fotografie casalinghe dei politici e la loro partecipazione a certi programmi televisivi sono stati un modo di annullare la loro distanza dalla gente comune. I politici sono persone come noi, che fanno la nostra stessa vita, che fanno la pennichella, che ogni tanto ballano sotto le stelle. Oggi però c’è un ulteriore elemento: c’è l’idea che questa omologazione sia un valore. Di più: che l’attività politica non abbia una sua specificità, che non richieda particolari competenze. La politica sembra non richiedere formazione, esperienza, cultura. Abbiamo giustamente eliminato l’autoritarismo. Oggi rinunciamo anche all’autorevolezza».
Perché la politica si è appropriata dei social? È soltanto perché, ad esempio, YouTube costa meno di una pubblicità sulla televisione?
«Non solo. Ma anche perché l’uso dei social consente di raggiungere direttamente masse enormi di elettori. Di più: grazie a profilazioni sempre più precise, questi elettori possono essere coinvolti offrendo loro ciò di cui essi hanno realmente bisogno, o ritengono di necessitare. Oltre a ciò, i social offrono un’illusione di democrazia. Sembra cioè che la democrazia consista solo nella possibilità d’interagire con un post di poche righe, oppure optando per un sì o per un no. Ma esprimere la propria opinione non è sufficiente. Le varie opinioni, infatti, devono essere portate a sintesi e confluire in un progetto comune: questa è democrazia. Condividere non è partecipare».
I social, che sembrava potessero essere il punto di svolta per una democrazia più partecipata, si stanno trasformando in qualcosa d’altro?
«Finiscono per essere per lo più uno sfogatoio. Si scambia la libertà di accesso a una piattaforma con la possibilità di contribuire alla costruzione del bene comune. Ci si accontenta di un’espressione costretta su binari ben precisi. Il problema è che poi le decisioni vere le prendono altri: e noi ne subiamo le conseguenze».