Opinioni & Commenti

La parrocchia, un luogo reale in un mondo virtuale

di Giuseppe SavagnoneLa recente nota pastorale della Cei, relativa alla dimensione missionaria della parrocchia, ha già sollecitato da parte di teologi e pastoralisti molte opportune riflessioni. Qui vorremmo svilupparne una che pure ci sembra degna di nota. Vorremmo provare a chiederci, cioè, quali siano le ricadute di questo notevole documento sul significato che la parrocchia può assumere, da un punto di vista laico, nella nostra società.

È un dato comunemente ammesso che quest’ultima, oggi, appare dominata da meccanismi di massificazione e di omologazione che tendono a mortificare, fino ad annullarle, le identità dei singoli e dei gruppi. Il grande rischio che la civiltà postmoderna e globalizzata corre, anche nel nostro Paese, è di cancellare le differenze, annegandole in quella specie di «brodo primordiale» che risulta dall’onnipotenza delle mode e dal flusso caotico dei messaggi mediatici. In questa crisi delle differenze diventa sempre più difficile cogliere quello che un noto filosofo contemporaneo, Emmanuel Levinas, chiama «il volto dell’altro». È come se i volti fossero cancellati, resi invisibili o impenetrabili dalla fretta, dalla distrazione reciproca, dall’ansia del successo.

Anche i nostri mezzi di comunicazione tendono ad esonerarci sempre di più dal confronto diretto con l’altro in carne ed ossa: telefonini, posta elettronica, Internet, si fondano su un gioco di messaggi in cui l’interlocutore fisicamente non c’è e neppure appare. Qualche psicologo ha denunziato questa fuga dalla responsabilità del rapporto diretto, ben più impegnativo di quello elettronico. E anche quando corpi e visi sono rappresentati, essi lo sono, come in televisione, solo virtualmente, consentendoci di porci nei loro confronti da semplici spettatori. Lo schermo televisivo diventa così non solo e non tanto la superficie su cui si delineano delle immagini, ma «schermo» nel senso di «filtro», «riparo»: una difesa che ci consente di assistere a tutto senza più soffrire di niente.

In corrispondenza a questa crisi della fisicità dei volti, anche gli spazi dell’incontro e del confronto sono sempre più rari. Al posto dei luoghi dove un tempo si sostava a parlare – i cortili, i ballatoi delle case, le piazze, il circolo – si diffondono quelli che i sociologi chiamano «non-luoghi»: sale d’attesa degli aeroporti, grandi arterie di scorrimento, marciapiedi affollati di passanti indaffarati. Nel frattempo, le case diventano più piccole, incapaci di ospitare gruppi consistenti. Si oscilla tra massificazione e privatizzazione, per scoprire, alla fine, che sono le facce della stessa solitudine.

In questo contesto assume tutto il suo significato il fatto che la parrocchia sia un luogo fisico, situato in un territorio concreto, e che si offra come spazio accogliente per chiunque, senza biglietti d’ingresso, senza barriere, aperto verso l’esterno. Come pure è importante, alla luce di quanto detto prima, che essa si caratterizzi, rispetto a gruppi e movimenti, per la sua illimitata capacità di mettere in relazione e accomunare tutte le possibili differenze: di carisma, di collocazione sociale e culturale, di appartenenza politica, e così via. C’è un estremo bisogno, oggi, di questo spazio – spirituale, ma anche materiale – dove sfuggire alla folla, per ritrovarsi, guardarsi in viso, parlarsi davvero.

Perché la parrocchia sia all’altezza di questo compito, però, veramente essa deve rinnovarsi. Quella che oggi abbiamo sotto gli occhi è talvolta, purtroppo, la negazione del dialogo e del confronto. Eppure è questo che la identifica e la rende insostituibile. Sì, essere missionaria, per la parrocchia, significa in fondo essere se stessa.

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