Opinioni & Commenti

La pace non è ostaggio di nessuno

di Giuseppe SavagnoneQualcuno, ascoltando i reiterati appelli alla pace rivolti dal Papa, in queste settimane, a un mondo sempre più tentato dalla guerra, ha creduto di trovare in essi un pacifismo a senso unico e una critica unilaterale nei confronti del mondo occidentale. Davanti a un simile rilievo, non è inopportuno, forse, fare alcune riflessioni.

Innanzi tutto, la pace a cui il sommo Pontefice invita è ben altra cosa rispetto a quella invocata dai movimenti pacifisti. Essa non ha nulla a che fare con la pura e semplice rinunzia alla guerra. Shalôm, pace, è in primo luogo, un concetto biblico che esprime la originaria integrità dell’essere, la pienezza di vita, l’armonioso rapporto con se stessi, con gli altri e con Dio. Tutt’altra cosa, dunque, da quella precaria condizione che oggi si scambia per pace e che è invece soltanto la fragile tregua fra interessi voraci e confliggenti. Non vi sarà vera pace fra gli uomini finché la miseria, la malattia, la solitudine, l’ingiustizia, contribuiranno a suscitare l’odio degli uni nei confronti degli altri. La pace è già violata per il fatto stesso che l’ordine profondo delle cose è stravolto, e il diritto che gli esseri umani hanno ad essere trattati come persone non viene riconosciuto.

Questo però significa che la pace suppone il riconoscimento della realtà delle cose e se ne lascia misurare; in una parola, che essa si fonda sulla verità e ne è espressione. Per questo non si lascia prendere in ostaggio e strumentalizzare da questa o quella fazione, da questa o quella parte politica, ma costringe tutti a rimettersi in discussione e a riconoscere le proprie contraddizioni e le proprie ipocrisie prima di denunciare quelle degli altri. È questa la pace che il Sommo Pontefice ha esortato, con insistenza, a perseguire. Si tratta di una esortazione le cui ricadute, sulla vita della nostra società, vanno ben oltre il problema dell’eventuale guerra contro l’Iraq e possono veramente essere definite radicali. Ma è il Vangelo, ben prima dei discorsi del Papa, ad essere tale. Che poi l’impatto di questa radicalità risulti più evidente nei confronti di un Occidente che dal cristianesimo trae le sue matrici spirituali più profonde, non dovrebbe sorprendere nessuno.

È questa nostra società, storicamente costruita su valori che nel Vangelo hanno la loro carta fondatrice, a doversi in primo luogo interrogare sulla sensatezza di un ricorso alle armi per garantire la pace di cui parlavamo, l’unica che a dei cristiani dovrebbe veramente stare a cuore. È questa società, giustamente scandalizzata dalla violenza altrui, e comprensibilmente timorosa di doverla subire, a doversi chiedere se il modo migliore per spegnerne i focolai, in Iraq come nel resto del mondo, sia di sparare per primi, o non piuttosto di compiere atti volti a ricostituire, per quanto ci riguarda, l’ordine profondo delle cose.

Ciò non implica alcuna concessione al fanatismo e alla violenza degli altri. C’è una giusta resistenza agli ingiusti aggressori che la Chiesa ha sempre riconosciuto lecita. Ma sarebbe un grave errore, anche politico, estendere indefinitamente, al di fuori di ogni controllo internazionale, il concetto di guerra difensiva. E soprattutto, sarebbe un terribile equivoco credere che una guerra, di qualunque tipo, possa risolvere il problema della pace. È questo – nient’altro – che il Papa in questi giorni sta cercando di dire.

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