Vita Chiesa
La nuova Monte Oliveto ha i colori dell’Africa
Il nuovo monastero, che ha preso il nome di Monte Oliveto è situato a due chilometri dal villaggio di Akwaboa, come l’abbazia di Monte Oliveto dista due chilometri dal villaggio di Chiusure. La Comunità è formata da due monaci professi perpetui e da sette monaci juniores (tutti ghanesi, eccetto un italiano).
Come allora in Italia, in Ghana quattro anni fa, con tre monaci si è dato inizio a quest’esperienza monastica. Come allora il Vescovo di Arezzo Guido Tarlati, così oggi l’Arcivescovo di Kumasi Peter Sarpong ci ha accolto più che volentieri, incoraggiato ed aiutato. Come allora, molti giovani oggi stanno popolando il nuovo Monte Oliveto ed è stata costruita la chiesa, dedicandola oggi come allora alla Natività di Maria.
Filtrati dalla boscaglia, i canti dei monaci africani biancovestiti si propagano dal buio del primo mattino fino a sera, intercalando le ore del lavoro con i momenti delle lodi al Signore. Come allora il complesso dell’edificio monastico rifletteva l’edilizia monastica del tempo, il nuovo monastero rispecchia il villaggio tipico della regione degli Ashanti, la popolazione che occupa il centro-sud del Ghana, che ha il suo centro nella città di Kumasi: strutture ad una sola elevazione, aperte verso l’interno del villaggio e chiuse all’esterno.
All’esterno, la chiesa si presenta a pianta quadrata, con un elegante pronao. Il quadrato che inscrive l’ottagono genera sui vertici quatto ambienti destinati ad essere: Cappella del SS.mo Sacramento, Sacrestia, e due Cappelle devozionali. Ai lati della chiesa sono ubicate le due strutture destinate ad essere la foresteria monastica. In posizione centrale troviamo due blocchi con gli spazi residenziali organizzati attorno al perimetro di due chiostri: uno a destra, l’altro a sinistra su ognuno dei quali si affacciano quattordici «celle» o stanze per i monaci.
In asse con la chiesa monastica, dal lato opposto, è posizionato il blocco riservato alla vita comunitaria; aula capitolare-biblioteca, refettorio, cucina, dispensa, lavanderia, spazi per attività lavorativa. Tutto il complesso è cinto da un muro perimetrale, che definisce lo spazio residenziale, diversificandolo dallo spazio esterno, adibito alla coltivazione per il sostentamento della Comunità, che come il villaggio, tende ad avere vita autonoma.
Non si tratta del lavoro per il lavoro; ma attraverso la Croce, il Libro, l’Aratro, modellare l’uomo nuovo, con la fantasia e la creatività. Vescovi illuminati dell’Africa si sono fatti questa convinzione: terminata l’era delle missioni, ora è necessario riferirsi ai valori e alla cultura del monachesimo benedettino, perché ciò che essa fece in Europa tra i secoli VIII-XII, lo riproponga in Africa. Si tratta di quella «diaconia» dei monasteri fin dal loro inizio, nel IV secolo già in Egitto, ricordata da Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, a cui si è richiamato anche l’Arcivescovo di Kumase nel suo discorso in occasione della consacrazione della chiesa monastica. È questa la «missio monastica» alla quale il Concilio Vaticano II nel decreto sull’attività missionaria ha invitato l’istituzione monastica ad aprirsi.
Per rispondere è anzitutto necessario cogliere l’essenzialità di quell’esperienza monastica, sfrondandola dalle inevitabili incrostazioni e appesantimenti provocati dalla storia. La risposta non è affatto scontata e tanto meno facile. Rimangono, ed è naturale, i dubbi e le perplessità. Si tratta di saper cogliere, tra i settantatre capitoli della Regola benedettina quelli che possono coniugarsi con la cultura ghanese, quei capitoli nei quali la romanità e il contesto storico-geografico è più sfumato, tenendo fermi però alcuni punti irrinunciabili. Infatti sono molti i contenuti, i valori che vanno oltre la storicità della Regola, per incunearsi nel cuore dell’uomo, di ogni uomo: europeo, africano o asiatico che esso sia. Del resto il monachesimo, prima di essere un fatto cristiano, è un fenomeno umano, che caratterizza, sia pure con modalità diverse, tutte le religioni.
Si tratta però di un processo lungo, che richiede tra l’altro una bella dose di pazienza, di creatività, e soprattutto di fiducia nel Signore.
La progressiva crescita delle Chiese locali africane richiede spazi di silenzio, luoghi di operosità produttiva spirituale e materiale. Con le loro occupazioni, i monaci, pur cercando anzitutto Dio nella storia attraversata e redenta da Gesù Cristo, come nella natura, espressione sublime della bellezza divina, si sono mossi in un ventaglio di ambiti che spazia dalla cultura all’economia, dai manoscritti all’agricoltura, dalle scuole alle distellerie. I monaci amano Dio, ma anche gli uomini e la natura, percependone appieno i doni. Infatti il monaco, secondo la definizione di Evagrio Pontico è «colui che vive separato da tutti, ma unito a tutti».
Anche quest’ultima Comunità benedettina di Monte Oliveto, ultimo promettente germoglio del secolare tronco benedettino, illuminerà di fede, di carità, di speranza di operosità la terra d’Africa.