Opinioni & Commenti
La morte in carcere è il fallimento di un sistema
di Giuseppe Anzani
Nel carcere di Massa Carrara, un giovane detenuto di 27 anni si è ucciso impiccandosi con un lenzuolo a un tubo della doccia, nell’infermeria. Era un extracomunitario, arrestato a Natale. Il ragazzo si chiamava Abellativ Sirage Eddine. Dice qualcosa il suo nome? Ma poi a chi importerà davvero il suo nome, avrà avuto davvero un nome, nelle carceri nostre, un africano approdato fra noi lungo le rotte scure della speranza in cerca del permesso di vivere? Si è dato la morte, fra noi che la pena di morte abbiamo bandito da sempre, come minima civiltà. Si è ucciso nel luogo della pena (della custodia preventiva dura come la pena) civilmente ufficiale e legale, e il suicidio sembra un grido che denuncia un dolore peggiore della morte.
È il quinto suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Ma noi non avevamo ancora finito di decifrare lo sgomento interiore per questa tragedia che un altro suicidio in carcere, di un altro ragazzo, ha aggiornato la tragica conta: Mohamed El Aboubj, nordafricano, 25 anni, Milano san Vittore; s’è fatto morire col fornelletto del gas. E poi subito dopo il tentativo di suicidio nel carcere di Sulmona, il terzo in dieci giorni, e il ragazzo stavolta salvato in extremis, già cianotico. E poi ancora un altro tentativo di suicidio, sventato, nello stesso istituto di Massa.
Carcere e morte, carcere e desiderio di morire. L’anno scorso c’è stata un’impennata di suicidi fra i reclusi, un record orrendo; ma il nuovo anno, se continua così, lo sta battendo; un morto ogni tre giorni, è la cifra della disperazione.
La dinamica psicologica del suicidio è infatti la disperazione. È il disfacimento del futuro immaginabile come vita, come progetto, come presenza significativa. Più che un gesto di resa di chi è fiaccato dalla sconfitta del proprio desiderio, e oppone il suo pianto o la sua supplica, il suicidio è la fuga che impreca il dolore, lo maledice e lo rimpiazza con il fantasma della distruzione in cui vuol precipitare.
Nei giorni scorsi il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza per il sovraffollamento delle carceri. Anche in Toscana scoppiano, con circa 3000 posti regolamentari, e oltre 4000 ristretti in cella. Ma l’emergenza non serve a creare spazio, confessa solo il fallimento; descrive la crudeltà, il trattamento «disumano e degradante» che ci rende incivili rispetto ai diritti umani. I suicidi disegnano lo spazio dei nostri rimorsi, dentro una «ingiustizia» indegna. C’è gente in carcere che annega in un quotidiano morire, con sofferenze peggiori del morire. La morte in carcere vuol dire che il sistema penitenziario sta fallendo, che invece di ricostruire la speranza (l’emenda, dice la Costituzione, cioè addirittura il traguardo della speranza compiuta) sigilla la disperazione.
Chi è attento ai pensieri, all’affettività positiva o agli impulsi distruttivi, alle fantasie di salvezza o ai deliri di rovina, alle fragilità psichiche, comuni o peculiari, delle persone incatenate? Ci vorrebbe, insieme all’emergenza, un progetto diverso di pena. Di pena, sì, ma di speranza anche; in sorta di «penitenza condivisa» che traversa il dolore dentro e fuori dal carcere, insieme. Un dolore senza speranza è un’insensata follia.