Domenica 30 marzo l’arcivescovo Alessandro Plotti darà il suo saluto alla diocesi di Pisa. Il 6 aprile, infatti, consegnerà la guida della Chiesa pisana nelle mani del suo successore, Paolo Benotto. Arrivato nel 1986, dopo 22 anni lascia la Toscana per tornare a Roma.Qual è stato d’animo con cui saluta Pisa e la Toscana?«Dopo 22 anni di servizio, non è facile distaccarsi. D’altra parte sono convinto che la legge della Chiesa sia una legge saggia, perché a 75 anni è giusto dedicasi a servizi pastorali più lievi. Non è facile cambiare prospettiva, anche perché non hai più una comunità tua, con cui cammini, al cui servizio sei totalmente dedicato. Un vescovo emerito può avere tante cose da fare, tanti servizi da compiere, ma senza un coinvolgimento così totale. Credo sia giusto però lasciare il compito di guidare una Chiesa, compito oggi così difficile e impegnativo, a chi è più giovane». C’è qualche ricordo particolare di questi anni che si porterà dietro?«Ci sono rapporti umani profondi nati non soltanto all’interno della realtà diocesana, ma anche con quelle persone che ho incontrato nelle università, nelle istituzioni pubbliche, in tutti gli ambienti che ho frequentato nelle visite pastorali o partecipando ai vari avvenimenti. Cancellare tutto questo è impossibile. Tra gli avvenimenti, ricordo con particolare piacere la visita del Papa del 1989, quando ho avuto al sorpresa di vedere una città che ha risposto in maniera straordinaria a questo evento, e poi la grande missione diocesana che abbiamo fatto per il Giubileo del Duemila, con circa 400 laici che si sono preparati per un anno per andare a portare l’annuncio del Vangelo: una mobilitazione molto bella, andata oltre ogni previsione».Cosa caratterizza la Chiesa in Toscana? Quali sono i punti di forza, e quali i punti di debolezza?«Il punto di debolezza è che nel passato la gente non è stata sufficientemente catechizzata. Questa che era una grande intuizione del Concilio di Trento, qui non si è mai realizzata nella misura con cui si è realizzata, ad esempio, nel nord d’Italia. L’ignoranza religiosa ha aperto la strada a tutte quelle esperienze di avversione alla Chiesa che sono state il socialismo, l’ideologia mazziniana, il comunismo, tutte forme che qui hanno attecchito più che altrove. Io ho cercato di insistere molto sulla formazione dei laici, sull’assetto della catechesi e dell’iniziazione cristiana. La forza del nostro territorio invece è la cultura diffusa: la Toscana è una terra dove la cultura non è patrimonio elitario ma appartiene al popolo che respira la bellezza del panorama, delle città, delle nostre chiese C’è una tradizione intrisa di cristianesimo, che è ancora molto viva».Ci sono santi a cui in questi anni si è affezionato?«Mi viene da citare i nostri santi pisani: San Ranieri, il patrono di Pisa, che era un laico: tornato dopo una lunga penitenza in Terrasanta ha diffuso in città il senso del divino. E Santa Bona, che accompagnava i pellegrini a Santiago o a Gerusalemme: una donna umile dotata di una grande forza spirituale. Due figure di grande attualità».Lei è stato molto vicino al nostro settimanale: che saluto rivolge ai lettori di Toscanaoggi?«Sono sempre più convinto che la scelta di fare un settimanale regionale sia stata un’intuizione importante. Meriterebbe una diffusione più ampia, perché la qualità, l’impegno con cui viene fatto, l’alto livello dell’aspetto grafico e dei contenuti lo rendono un giornale che si legge volentieri. Uno strumento fondamentale per legare insieme le diverse diocesi della Toscana, dove il campanilismo è un grande pericolo, e utilissimo per dare compattezza e condivisione all’interno della Chiesa sui grandi temi».Nella Chiesa si vedono spesso, invece, divisioni e incomprensioni «Proprio per questo Toscanaoggi può essere lo spazio in cui le diverse voci trovano cittadinanza. Il pericolo spesso è quello di vedere i problemi in maniera unilaterale, invece è importante accettare che anche dentro la Chiesa ci siano più anime, più modi ad esempio di interpretare la testimonianza cristiana nella società. Il settimanale può essere lo spazio in cui queste diverse anime si confrontano e si amalgamano».Lei è stato anche criticato per certe prese di posizione «coraggiose» «Non sono molto d’accordo sulla posizione difensiva della Chiesa. Ci sono valori che sono non negoziabili, su questo non ci sono dubbi: ma non possiamo arroccarci su di essi. Gli aspetti dottrinali devono essere coniugati insieme agli aspetti pastorali. Bisogna aprirsi al dialogo, trovare luoghi di mediazione: bisogna avere il coraggio di mettersi in ascolto gli uni degli altri. La pastorale non è una scienza esatta: deve trovare spazi sempre nuovi in cui far entrare il Vangelo. Se ci arrocchiamo in una difesa ad oltranza, creiamo uno stato di incomunicabilità con chi è fuori. La Chiese invece deve sapersi incarnare nella storia, con tutti i rischi che questo comporta. Se battiamo solo sui temi della vita e della bioetica rischiamo di perdere di vista altri temi come la pace, il lavoro, la dignità della persona, il bene comune, e di non riconoscere quei germi di verità che incontriamo nel mondo. A me dà molto fastidio la riduzione degli interventi dei vescovi a categorie politiche: destra o sinistra, conservatore o progressista Queste sono categorie che nella Chiesa non hanno senso: bisogna servire il Vangelo, distinguendo i valori su cui non si può transigere da quelle questioni in cui c’è spazio per l’opinabilità, e stando attenti a non creare fossati tra i cristiani e il mondo. E soprattutto bisogna avere molta misericordia, condizione fondamentale per fare pastorale oggi: combattere il peccato, ma accogliere il peccatore».