Fin dal momento della sua elezione al soglio petrino, Joseph Ratzinger ha dovuto fare i conti con il suo particolare «peccato originale»… ovvero essere stato per più di vent’anni prefetto della Congregazione per la dottrina della fede o, come in un certo senso dispregiativo si preferisce talvolta chiamarlo, l’ex Sant’Uffizio. In questo senso, non proprio amichevole, egli è stato in passato definito «il panzer di Dio» o, ricordando i suoi natali d’oltralpe – e anche in questo caso non molto benevolmente – il «Pastore tedesco». Ma, col passare degli anni, tutti gli opinionisti – ma soprattutto coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarlo più da vicino – hanno potuto riconoscere in lui i caratteri delicati e gentili della persona colta e profondamente credente, tanto certa delle proprie convinzioni, quanto rispettosa di quelle altrui. Per quei paradossi che spesso accadono nelle vicende storiche e che sconfessano gli stereotipi con i quali non di rado etichettiamo situazioni e persone, quel Papa che doveva essere l’emblema del tradizionalismo e della restaurazione è stato in realtà uno dei più «rivoluzionari», almeno in alcuni suoi gesti: primo fra tutti la decisione di rinunciare al ministero petrino, annunciata l’11 febbraio 2013. Inoltre, è stato colui che ha dato inizio a quel processo di riforma della Curia romana che papa Francesco sta continuando; è stato colui che ha pubblicamente denunciato – durante la famosa Via Crucis del 2005 – l’esistenza di una «sporcizia» nella Chiesa e iniziato una decisa lotta contro gli abusi sui minori compiuti dal clero; è stato il Papa che ha maggiormente intensificato il dialogo ecumenico, particolarmente con la Chiesa ortodossa e con gli anglicani, ma anche quello che ha – senza sconfessare le acquisizioni conciliari – cercato di ricomporre la frattura con i cattolici tradizionalisti. È stato, poi, il primo Papa a pubblicare una trilogia di volumi a proprio nome – frutto dei suoi studi decennali – sulla figura storica di Gesù di Nazaret e a concedere lunghe interviste su temi di scottante attualità.Certamente, Benedetto XVI è stato, e non poteva non esserlo, anche e soprattutto un Papa fedele alla tradizione, nel senso più nobile e teologicamente profondo. Egli ha così inteso recuperare la grande eredità lasciata dal Concilio Vaticano II, sottolineando l’importanza di una sua interpretazione nel segno della continuità e non della rottura; ha voluto ripristinare un’attenzione al secolare patrimonio liturgico, recuperando anche la possibilità – in casi particolari – di celebrare la Messa nel rito antico; ha ribadito i punti fermi della dottrina cattolica in ambito morale, contro quella che lui chiamava la «dittatura del relativismo»; ha sottolineato con forza l’alleanza tra la fede e la ragione, contro ogni deriva spiritualistica e new-age del fatto cristiano.Soprattutto – e così sarà ricordato nella storia della Chiesa – Benedetto XVI è stato un eminente padre ed educatore della fede, al pari di quelli dei primi secoli cristiani. I suoi documenti, in primis le sue tre encicliche, i suoi discorsi, le sue omelie, sono e rimarranno pietre miliari della grande tradizione letteraria, teologica e culturale cristiana: con chiarezza, finezza di espressione, profondità di argomentazione, egli non si è mai stancato di offrire, con sapienza e passione, le coordinate fondamentali e ampie del patrimonio di pensiero cristiano, cercando di mostrarne le dimensioni antropologicamente significative e il loro intersecarsi con le domande più radicali del cuore e della ragione umane.La mia storia personale deve moltissimo a papa Ratzinger. Il mio ingresso in Seminario, all’età di 19 anni, è stato accompagnato e illuminato dalla lettura del suo testo forse più noto, ovvero Introduzione al cristianesimo, che ha avuto ben venticinque edizioni ed è stato tradotto nelle lingue più importanti del pianeta. Ne sono rimasto così affascinato che, quando ho dovuto scegliere l’argomento del mio dottorato in teologia, alla proposta fattami di studiare approfonditamente il pensiero del teologo bavarese, allora già Prefetto della Congregazione, non ebbi alcun dubbio e mi dedicai con entusiasmo all’oggetto del mio studio. Fra l’altro, ebbi allora la possibilità di incontrare di persona, per due volte, il già noto uomo di Chiesa e ne ebbi sempre la straordinaria impressione di un uomo tanto grande, quanto umile. A me, giovane sacerdote alle prime armi con lo studio approfondito della teologia, egli dedicò infatti, pazientemente, due ore del suo tempo prezioso, avendo la delicatezza di introdurmi alle fonti della sua riflessione teologica e guidandomi così nei primi passi della mia futura ricerca. Devo riconoscere che, al di là del buon risultato finale conseguito, la conoscenza delle sue opere e del suo pensiero mi ha permesso in seguito di affrontare adeguatamente il non semplice compito di docente presso la Facoltà teologica fiorentina, appoggiandomi non poco su quanto avevo in precedenza studiato e che aveva formato, per così dire, la mia mens teologica. L’unico mio grande rammarico è non averlo potuto incontrare successivamente di persona, causa anche l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.Carissimo Papa Benedetto, grazie di quanto hai dato alla Chiesa attraverso la tua guida sicura, il tuo magistero profondo e illuminato, la tua persona mite e insieme forte, la tua fede certa e appassionata. Continua a guidarci dal cielo, dove finalmente potrai contemplare senza veli il grande Amico della tua vita, che hai sempre servito e ardentemente atteso.Andrea Bellandi*arcivescovo di Salerno Campagna Acerno