Opinioni & Commenti
La memoria non è di destra né di sinistra
di Franco Cardini
La memoria è la garante della nostra identità. Come diceva Platone, sapere è ricordare: se non ricordiamo, non sappiamo niente; peggio, non siamo niente.
Ciò vale d’altronde per la memoria e l’identità individuali. Ma resta valido anche per quelle comuni, o meglio comunitarie? Qui il discorso si fa davvero più problematico. La memoria è connessa con la coscienza di possederla e la volontà di conservarla e di potenziarla: non a caso, nell’antichità e nel medioevo ma anche fino a tempi recenti s’insegnavano interessanti sistemi mnemotecnici: mentre oggi non riusciamo a ricordar quasi nulla e siamo tutti drammaticamente agendadipendenti, computerdipendenti e cellulardipendenti.
Ma la memoria, lasciata a se stessa, si traduce in una sorta di continuum indistinto. Essa dev’essere sorvegliata, educata, razionalizzata. Da sola, non serve a nulla e svanisce presto: «L’uomo non ricorda nulla: ricostruisce di continuo», ammoniva un grande storico, Lucien Febvre. E difatti la storia è questo: razionalizzazione critica della memoria.
Ma dir ciò equivale ad affermare che, se vogliamo salvarci dallo svanire «naturale» della memoria, legato ai miserabili processi fisiologici della nostra mente e ai limiti della nostra struttura psicofisica, la memoria dev’esser selettiva. E qui nasce il problema: che cosa bisogna scegliere di ricordare, che cosa scegliere di dimenticare (o finger di aver perduto casualmente per strada)? Poiché non v’è chi non veda che la cosa è delicata, contraddittoria, allarmante. Si è parlato molto del «dovere di ricordare»; il che non toglie però che, dinanzi a certi eventi, si parla spesso anche dell’opportunità o addirittura della necessità morale di dimenticare. Allo stesso modo, i mass media ci mostrano talora scene terribili, esortandoci al dovere della memoria; e altre dichiarano candidamente senza rilevar la contraddizione che determinate immagini sono troppo crude, ragion per cui è meglio non mostrarle. In molte lingue le parole che indicano il perdono sono legate al campo semantico dell’oblìo: come a suggerire che l’unico modo sicuro di perdonare è il dimenticare. Il che, dal punto di vista cristiano, è tragico: non a caso, etimologicamente parlando, per-donare significa «donare in modo estremo e totale». Il contrario dell’oblìo, quindi. Rinfreschiamoci le idee: perchè uno dei peggiori difetti della società civile italiana diciamolo proprio prché stiamo parlando di memoria è di aver la memoria corta.
In Italia una serie di eventi e di polemiche ha condotto alla proclamazione di due differenti «Giornate della memoria»: quella del 27 gennaio, ufficialmente promossa dal Parlamento nel 2002 sulla base di una legge pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 177 del 31 luglio del 2000, che avevamo già imparato a sentire come una scadenza consueta nonostante fosse recente, e che fu accolta con serietà e perfino con entusiasmo almeno ufficiale soprattutto nel mondo della scuola; e poi quella del 10 febbraio.
Per quanto ormai non lo si ricordi più, quando si istituì la giornata del 27 gennaio affiorò immediatamente un problema molto delicato. Si stabilì con la massima concordia di assumere a data simbolica quel tragico ma anche liberatorio 27 gennaio del 1945, quando le truppe sovietiche varcarono allibite i tristi cancelli di Auschwitz. Ma alcuni pensavano e tale era l’intenzione del promotore parlamentare, Furio Colombo che la ricorrenza avrebbe dovuto incentrarsi sulla Shoah e radicarsi nella meditazione di quella tragedia, avvertita come unica. Altri, che furono messi prima in minoranza e poi a tacere a livello massmediale, ritenevano che della Shoah si dovesse invece sottolineare non tanto l’unicità quanto l’esemplarità: l’olocausto degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, come gli zingari, pur essendo dotato di caratteri propri e peculiari, avrebbe dovuto essere occasione per ricordare tutte le vittime di tutti i massacri, i genocidi, le «pulizie» (etniche o sociali o civili che fossero), insomma tutti gli orrori di cui la storia dell’umanità è costellata. Qualcuno obiettò che ciò sarebbe equivalso a fraintenderne obiettivamente la Shoah, a farne un episodio, sia pur terribile, tuttavia in qualche modo paragonabile ad altri; e quindi ad obiettivamente minimizzarla. Tali pareri prevalsero: e, da allora, il 27 gennaio è divenuto esclusivamente giorno della memoria della Shoah.
Ora, il ricordare la Shoah non è certo un fatto «di sinistra», o prerogativa delle sole sinistre. Ci mancherebbe. Ma il 27 gennaio aveva lasciato in qualcuno un residuo disagio, come se mancasse qualcosa: si rimediò successivamente con la giornata del 10 febbraio, dedicata alle vittime delle foibe. Ma era una soluzione bipartisan, una sorta di par condicio che francamente faceva acqua da tutte le parti: come se così, con quella scelta, si accontentasse tutto l’arco parlamentare ed elettorale instaurando una giornata della memoria un po’ più di sinistra e una un po’ più di destra. Ma da un lato la memoria della Shoah non può esser patrimonio d’una sola parte; e dall’altro bisogna dire che la tragedia delle foibe, per quanto terribile, è imparagonabile con quella dei campi di sterminio. E comunque, posta così, tutta la faccenda non riesce a evitare lo spiacevole gusto di qualcosa di strumentale.
La «Giornata della memoria» dovrebbe servire a uno scopo preciso: a rafforzare in tutti i cittadini e soprattutto nelle più giovani generazioni non solo la memoria della tragedia della Shoah, ma anche la consapevolezza profonda delle cause storiche che ad essa condussero e la coscienza che alta e costante dev’essere in tutti gli uomini liberi la consapevolezza che solo una vigilanza continua, ispirata agli irrinunziabili principi della giustizia e della libertà, può impedire che aberrazioni ed orrori come quelli del passato possano tornare magari in nuove vesti e sotto nuove forme a minacciare il futuro della nostra Europa e del mondo.
Ma la memoria storica che sottintende, appunto, una selezione di quanto è degno di esser ricordato ha, in una società civile libera e consapevole, la funzione altissima di contribuire alla progettazione d’un futuro migliore e più giusto. Se così non fosse, le nostre celebrazioni dei fatti gloriosi o tragici del passato altro non avrebbe se non una funzione retorica destinata a sclerotizzarsi e a cadere, col tempo, nel vuoto.
Ed è qui che la riappropriazione della storia deve diventare progettualità nel tempo presente. Ancor oggi il mondo conosce moltissimi casi di popoli minacciati di estinzione; di culture che rischiano la fine per etnocidio; di violenze etniche, religiose, politiche e militari che si aggiungono alle obiettive violenze determinate dalle caratteristiche dei processi produttivi e dello sviluppo economico, finanziario e tecnologico gestito dai paesi ricchi dell’Occidente e del Settentrione del pianeta, ma pagato troppo spesso da quelli più poveri.
Questi sono i «nuovi ebrei» ai quali dobbiamo dar voce, se non vogliamo renderci complici delle Shoah ancora in corso. Molti di essi sono fra noi: sono gli africani, gli albanesi, i rom, i rumeni, i filippini che vivono ai margini delle nostre città e della nostra economia e che vengono trattati da Untermenschen nonostante la nostra civiltà reciti giornalmente il mantra del rifiuto del razzismo. Vi sono poi i popoli dell’America Latina che poggiano i piedi sul sottosuolo più ricco del mondo e muoiono di fame perché le loro risorse sono drenate dalle corporations multinazionali sotto gli occhi di governi corrotti e compiacenti; vi sono gli africani sterminati da una logica perversa attivata e sostenuta dalle imprese multinazionali che mirano al monopolio dei diamanti, del petrolio o del prezioso «coltan»; oppure semplicemente ridotti alla fame dalle esigenze dell’impianto di monoculture (come quelle del caffè e dell’ananas; o all’allevamento del pesce persico nel Lago Victoria) che giovano a noi ma non a loro e che distruggono habitat e tradizioni; vi sono i bambini africani che nascono già ammalati di Aids e sono condannati a morte perché le multinazionali si rifiutano di rinunziare a parte dei proventi che giungono loro dagli alti costi dei brevetti di produzione dei farmaci; vi sono i curdi, i ceceni, i tibetani, i palestinesi cui si nega una patria o una effettiva autonomia; vi sono i popoli sottoposti ad assurde forme di embargo che rendono loro difficile il procurarsi medicinali e altri generi di prima necessità solo perché i loro governi, in seguito a processi dilìplomatico-giudiziari «internazionali» per la verità spesso sommari e arbitrari, sono stati dichiarati «stati-canaglia».
Se la nostra memoria non si esercita a individuare queste nuove Shoah ancora in atto e a impedirle, il ricordo dei morti nei campi di sterminio nazista diventa un esercizio retorico offensivo per quelle stesse vittime che intende onorare, perchè quell’onore si traduce in termini di fredda retorica o di bassa speculazione politica. La memoria di un orrore non può, non deve servir da paravento per nasconderne altri e per impedir che la protesta contro di essi divenga imbarazzante. Possiamo e dobbiamo onorare i caduti di Auschwitz e di Dachau: la maniera migliore per farlo è fermare le Auschwitz che funzionano ancora, liberare i prigionieri delle Dachau che continuano a far vittime. Dovunque siano, per qualunque ragione esistano, chiunque le gestisca. Se non lo facciamo, siamo complici. E non meno spregevoli di chi, dinanzi alle camere a gas, si è trincerato dietro un’ipocrita «non sapevamo, non credevamo, non volevamo».