Arezzo - Cortona - Sansepolcro

La Madonna del ConfortoFalsi storici e dileggi della sacra immagine

La Madonna del Conforto è da oltre due secoli nel cuore degli aretini. Ma non manca chi non riesce ad accettare che un intero popolo le renda omaggio, la invochi, la implori. Proprio in questi giorni ci è capitato di trovare in un sito web un aretino laico all’avanguardia che così descrive la ricorrenza del 15 febbraio: «Ad Arezzo si festeggia la Madonna de Confort (per farmi capire alla mia amica Barbara che è americana). In realtà sarebbe la Madonna di Provenzano, presso Siena. Perché ogni posto ha la sua, e qui si entrerebbe in un ginepraio. Quella di Arezzo ha anche la corona, quella di Siena no: chissà come è gelosa. Durante un terremoto questa Madonna sbiancò (di paura o perché qualcuno si ricordò di spolverarla?). La gente gridò al miracolo, ma guarda caso era il periodo in cui ad Arezzo era scoppiata la rivolta antigiacobina…». Una testimone di così alto profilo merita davvero una citazione.Il suo racconto è una sorta di “summa di sapienza e conoscenza rovesciata”. Basta leggere la traduzione in inglese o pensare all’indicazione di Provenzano che non è una località presso Siena bensì il nome dell’antico castello di Provenzano Salvani, oggi nel cuore di Siena, dove fu eretta nel 1595 la Collegiata che tuttora accoglie la Madonna di Provenzano. Oppure pensare alla mancata incoronazione della Vergine senese, in verità avvenuta nel 1681 (mentre la Madonna del Conforto venne incoronata nel 1814), oppure al citato miracolo legato ai moti antifrancesi, che ad Arezzo iniziarono nel 1799 tre anni dopo i fatti legati al prodigio della Madonna degli aretini.In realtà il “nostro moderno aretino” non rappresenta niente di nuovo perché, fin dai giorni in cui cessò il terremoto che stava terrorizzando la città, critiche e dileggi talora sprezzanti non sono mancati, anche se mai sono riusciti a scalfire l’identificazione del popolo di Arezzo con la sacra immagine venerata in Cattedrale. Un esempio a riguardo ce lo riferisce in un suo testo monsignor Agostino Albergotti, allora vicario generale a Firenze divenuto poi Vescovo di Arezzo e grande promotore del culto alla Madonna del Conforto. Albergotti ci racconta di «irreligiosi, che in nominarla alludendo alla materia da cui è formata a dileggiamento la chiamavano il Coccio dei Preti e con altre espressioni, che meglio è tacere. Questo linguaggio di sacrileghi insulti è anche degli Eretici, è degli ultimi Novatori, è dei moderni Filosofi, è dei Libertini, che così vanno sparlando delle Immagini sacre, e del culto ad esse prestato». Semplicemente Albergotti, due secoli fa ricordava «che il Culto delle Sacre Immagini è santo, è retto, è lodevole, è vantaggioso, e che se i Popoli ad alcuna Immagine, come appunto è la nostra, piuttosto che ad un’altra vanno rendendo particolare onore, non è colpa dei Preti, che li fanatizzano, ma è opera di quel sapientissimo Signore, che sempre ammirevole nelle sue vie colla voce d’inusitati prodigi ha in uso di richiamare più con un mezzo, che con un altro i popoli stessi a godere dell’abbondanza di sue divine misericordie».Lo stesso Concilio di Trento in un suo decreto del 1563 – ben più illuminato del nostro “moderno laicista” – ricordava che «alle Immagine della Vergine e dei santi si deve attribuire il dovuto onore e venerazione, non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, come un tempo facevano i pagani, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi che esse rappresentano». Il concetto dunque di giungere alla misericordia di Dio attraverso la Vergine Maria «genitrice di Dio» si è diffuso fin dai primi secoli del cristianesimo. E se esso ha mantenuto una sua attualità lo si deve proprio alle tante immagini sacre che i diversi popoli hanno scelto per identificare la loro storia, le loro tradizioni e ricordare i tanti prodigi e l’abbondanza di grazie ricevute. La nostra Madonna del Conforto è uno di questi emblemi. E proprio per quel che rappresenta, nessuno la saprà mai rimuovere dai sentimenti affettivi della gente della terra di Arezzo.di Alessandro Gambassi