Cultura & Società
La lunga via dei Magi
di Carlo Lapucci
Se avete in casa un bambino può darsi che possiate assistere a una vecchia schermaglia che si ripete intorno al presepio, tra le ragioni filologiche e logiche dei grandi e l’istintiva e candida intuizione dei bambini. Nella variopinta scena tra cielo di cartone, strade di sassolini e ruscelli di carta stagnola, con una folla eterogenea di personaggi là convenuti dalle più remote zone del cosmo (vi si aggirano anche qualche marziano e stravaganti creature di lontanissime galassie) ci sono tre personaggi, con qualche paggio e staffiere del seguito, che non trovano mai pace: sono i Re Magi.
Logica vorrebbe che apparissero più lontano possibile, ai confini del muschio, al massimo verso il quatto o cinque gennaio, e invece i bambini li piazzano già molto prima di Natale davanti alla capannuccia. Un dotto intervento della persona più colta della famiglia spiega con ragioni inoppugnabili che quella gente deve apparire solo per la Befana. Una discussione appassionata porta al compromesso di metterli mimetizzati dietro un poggio, ma molto distanti dalla mangiatoia. Girato l’occhio, dopo un’oretta, i Magi si ritrovano davanti alla culla, subito ricacciati in castigo da una vecchia zia che ha studiato. Così, tira e molla, si va avanti fino alla Befana, perché tutto sommato, tolti i grandi protagonisti dell’evento, i Re Magi sono i personaggi più affascinanti del presepio: non si sa da dove vengano, non si sa dove poi scompaiano, sono vestiti meglio degli angeli, hanno cammelli, dromedari, cannocchiali, servitori, turbanti; sono sovrani, magi, astrologi: insomma esseri che entrano nel presepio direttamente dalla porta della favola I bambini li vogliono subito, sempre e ben in vista.
Il segreto del fascino dei Re Magi è proprio il mistero del mondo da cui vengono e la strada che dopo faranno: proprio di questa si vorrebbe parlare.
La festa dell’Epifania è una delle feste più antiche della cristianità, che ebbe origine in Oriente e nei primi secoli cristiani non era ancora distinta dal Natale. Quando il Natale fu la festa della nascita del Redentore, l’Epifania passò a ricordare tre feste: la visita fatta dai Magi a Cristo, il battesimo di Gesù e la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. Oggi si ricorda solo il primo di questi eventi, la festa della rivelazione della Salvezza alle genti, con la visita dei Re Magi, che rimane misteriosa: dopo tanti poveri i più ricchi tra i ricchi, dopo tanti semplici i più sapienti, dopo tanti miseri pastori e contadini, i più potenti. La festa risente della sua primitiva commistione per le leggende che le sono legate e altri aspetti che condivide col Natale, come la credenza che sia una notte meravigliosa di prodigi e la conversazione che avrebbero tra loro gli animali.
Ciò rivela un’originaria festa solstiziale, che ha assunto nel Cristianesimo sempre più caratteristiche di grande solennità e ha mantenuto anche il suo significato di fine di un ciclo astronomico e vegetativo mediante la figura della Befana, simbolo dell’anno che finisce e muore. Anticamente le feste in suo onore erano molto più numerose e celebrate: il corteo della Befana, con in testa il suo fantoccio, percorreva le città, i paesi, seguito da fiaccole, petardi, canti, scherzi, maschere… Poi in genere veniva bruciato in una piazza, nell’allegria generale, su un grande rogo. Usano ancora, qua e là, befanate, cortei di questua, di solito fatti nella notte della vigilia, o in tale periodo.
La storia prende le mosse da una leggendaria montagna, il monte Vaus, detto anche Vittoriale, che è identificabile con il Sabalân, la cima più alta dell’Adarbaigan. L’ambiente è quello della religione zoroastriana e la montagna sacra era frequentata dai sacerdoti e dagli astrologi che vi salivano per le loro osservazioni, soprattutto aspettando l’apparizione di una stella che le profezie legavano alla venuta di una divinità sulla terra.
Dai Vangeli sappiamo del loro avvistamento e del viaggio, dell’adorazione di Cristo e della loro partenza discreta per sfuggire ad Erode. Da qui ricomincia la leggenda la quale ci avverte subito che, mentre il loro viaggio di andata miracolosamente durò pochi giorni (la stella fu avvistata la notte della nascita), quello di ritorno non fu prodigioso e durò oltre due anni, tanto lontana era la loro terra.
Tornarono ormai seguaci di Cristo, ma non fu cosa semplice: stando alle varie versioni della storia dovrebbero aver visitato metà del mondo allora conosciuto, con itinerari strani che li riportavano spesso sui loro passi. Tornarono ognuno alla propria terra con l’impegno a ritrovarsi sul monte Vaus ogni anno. Nei loro regni condussero vita esemplare e ritirata fino a quando giunse in India San Tommaso Apostolo, che la tradizione considera primo evangelizzatore di questa parte dell’Asia. Sarebbe anche l’autore di scritture apocrife, un vangelo e di un’apocalisse, e fu martirizzato dal re Mandai, del quale aveva convertito il figlio. Le sue spoglie furono conservate prima a Edessa, dove il Santo è ancora onorato, quindi in parte nella Cattedrale di San Thome a Madras, e in parte a Ortona d’Abruzzo.
Incontrato l’Apostolo i Magi divennero suoi seguaci: appresero quanto non sapevano ancora di Cristo e predicarono a quei popoli la buona novella. Prima di proseguire i suoi viaggi Tommaso fece vescovi i Tre Re, i quali scelsero la città di Seuva nella Persia come loro residenza, facendola diventare il centro propulsore del Cristianesimo in Oriente. Questa città sarebbe Sawaha nella provincia di Hamadan: uno dei luoghi più importanti del culto del fuoco sacro iranico.
Qui, stando sempre alla Storia dei tre re di Hildesheim, entra nella vicenda un personaggio favoloso, come se ne mancassero in questa storia: il Prete Gianni. Questo nome non indica una persona, ma una dignità e un potere, come imperatore o re, e la carica fu istituita proprio dai Magi, i quali, acquisito il governo di molti popoli che seguirono la loro predicazione, venendo alla fine dei loro giorni, istituirono un’autorità spirituale, scegliendo Giacomo d’Antiochia, al quale imposero il nome di Patriarca Tommaso, dall’apostolo evangelizzatore di quella terra, e un’autorità temporale, il «signore degli indiani» che fu il Prete Gianni, che prese nome dai due Giovanni, Battista ed Evangelista, e fu difensore del Cristianesimo.
Il Prete Gianni è un mito medievale che si collega con un’infinità di fatti e di favole, come il Veglio della Montagna. Ne parla anche Marco Polo nel Milione, senza chiarire se fu l’imperatore di genti favolose, imparentato coi sovrani asiatici, come appare talvolta, o un capo spirituale dei nestoriani, ovvero un difensore dei cristiani contro le orde mongole, o quale figura sia veramente tra quelle nelle quali, in epoche diverse, è stato identificato. In Occidente ebbe credito una sua lettera giunta nel 1165 a Manuele Comneno, imperatore di Bisanzio, al papa Alessandro III e a Federico Barbarossa, dalla quale si sa che il suo regno era solcato dall’Indo e vi erano «uomini cornuti, fauni, satiri e donne della stessa specie, pigmei, cinocefali, giganti, monocoli, ciclopi e un uccello chiamato fenice». Marco Polo, che tra l’altro afferma di aver visto a Saba la tomba dei Re Magi, racconta che Gengis Khan chiese in sposa la figlia del Prete Gianni e, avutone un rifiuto, lo affrontò in battaglia e lo vinse. Questo sarebbe stato Toghrul, principe dei Kerait, forse turchi mongolizzati, cristiani nestoriani, principe sconfitto dal Khan nel 1203.
Più testimoni affermano che i Mongoli movendo verso Occidente avevano tra i loro fini anche quello di recuperare le spoglie dei Tre Re, che consideravano appartenere alla loro stirpe e, giunti vicini alle coste adriatiche, ne fecero anche richiesta. Ciò dimostrerebbe che dietro questa leggenda c’è anche qualcosa di storico.
Elena, madre di Costantino, colei che viaggiando in Oriente recuperò la Croce di Cristo, secondo il racconto di Hildesheim, fece anche un viaggio in India, ottenendo dal Patriarca Tommaso e dal Prete Gianni, i resti di Melchiorre e Baldassarre. Siccome le reliquie di Gasparre, l’etiope, si trovavano in possesso degli eretici nestoriani, ella dovette cedere il corpo dell’Apostolo Tommaso per ottenerle e così portò i corpi dei tre Magi riuniti a Costantinopoli e li depose nella chiesa di Santa Sofia. Anche qui le preziose reliquie non ebbero pace. Si dice che Elena stessa le portasse a Roma, altri che vi giunsero qualche tempo dopo.
La tradizione più seguita narra che sia stato Sant’Eustorgio a portarle a Milano. Questi era stato mandato a Milano come ambasciatore dall’Imperatore d’Oriente Emanuele I Comneno e nella città lombarda, per le sue doti e la santità fu fatto vescovo. Tornato a Costantinopoli, dove per disordini e decadenza le reliquie erano lasciate in abbandono, le chiese all’imperatore e le portò a Milano.
Pare che le cose non andassero proprio così. Milano fu sconfitta due volte dall’Imperatore: con assedio nel 1158 e poi nel 1162. Hildesheim sbaglia la data: dice che fu nel 1144, mentre altre storie si raccontano su questa vicenda. Pare che nei lavori di demolizione e fortificazione della città per resistere all’assedio furono riscoperte per caso le reliquie dei Magi, che erano state nascoste in un periodo precedente e dimenticate. Pare anche che a rivelare a Rainoldo il luogo segreto non fosse Assone. Nella notte in cui furono portate nel campanile una vecchia era rimasta addormentata nella chiesa e, destata dal trambusto notturno, vide tutto e sentì di cosa si trattava. Poi, per vanità andava smaniando in giro dicendo di conoscere certe cose che solo lei sapeva. Ciò fu riferito a Rainoldo che mandò alcune donne, sue spie, ad indagare. Le spie di Rainoldo ebbero facile gioco: accusando la vecchia d’essere una fanfarona, la indussero a parlare e le carpirono il segreto. Per questo i Magi fecero il primo viaggio a Betlemme guidati da una stella e l’ultimo a Colonia mandativi da una vecchia linguacciuta.
L’importanza di questo patrimonio leggendario e delle figure dei Magi è enorme ma inavvertita. Una vicenda che attraversa i secoli, muove forze diverse, popoli, religioni, lascia tracce nei luoghi più lontani del mondo, dall’India alla Siberia, all’Etiopia (terra che qui non abbiamo potuto considerare), entrando nelle mitologie e nella storia, contiene qualcosa di molto potente, oltre a un fascino, un richiamo simbolico e misterioso, che in un periodo di materialismo come il nostro può apparire appena curiosità, ma non sfugge all’istinto dei bambini che fanno il presepio. Che i santi profeti dell’Asia antica, dei Mongoli, dei nestoriani, sia pure forma leggendaria, sepolti nel cuore dell’Europa, è stupefacente se si guarda attraverso il linguaggio della cose e degli aventi. Ciò rivela il potere del mito che ha la capacità di collegare, se non di unire intimamente, colture, pensieri, culti lontani e diversi, potere che altre cose non hanno, ovvero, se lo hanno, non riescono ad avere una tale profondità e persistenza.
Quanto potranno durare le unioni fatte in nome dell’economia e della moneta? Che fondamento possono avere, oltre l’interesse pratico, che oggi c’è e domani chi sa?
Non saranno i Magi a creare la fratellanza e la pace tra i popoli, ma se invece che tante questioni banali si considerassero, anche nell’insegnamento, le linfe segrete del pensiero e della cultura che i popoli hanno in comune, che uniscono l’umanità nei suoi fondamenti, forse si potrebbe costruire qualcosa di più vero e duraturo. Se invece della globalizzazione dei portafogli, che è sempre rischiosa, si perseguisse la condivisione delle rivelazioni, dei culti, delle tradizioni, dell’arte, dei patrimoni di sapienza e di favola che rivelano una dotazione simile nelle linee essenziali di tutti i popoli, se si perseguisse anche una globalizzazione dello spirito, alla quale non pensa mai, sarebbe molto più facile raggiungere non l’omologazione, che non ha senso, ma la comprensione, il rispetto delle varie culture, anche le più lontane.
Invece queste nostre arcate che uniscono i continenti, questi ponti tra secoli di favola e di sogno, ma anche d’intuizione, di speranza e di spiritualità, cadono a pezzi, coperti di d’edera e rovi, al punto che quasi nessuno più li riconosce. Di fronte a ceri documenti si ha l’impressione che i popoli in passato si conoscessero meno, per ragioni pratiche, ma avevano molto di più forte e profondo da condividere.