Cultura & Società
La lezione della guerra: mai più la Chiesa (e i preti) in trincea
La guerra, ogni guerra, uccide, ferisce, distrugge. E divide. Separa gli uomini e i popoli tra loro. Giunge persino a divedere le comunità credenti, a insinuare nelle persone di fede l’idea secondo cui per «difendere la patria» la violenza sia il giusto mezzo risolutivo. Così, nel centenario della prima guerra mondiale (1914-1918), si sta riflettendo in tutta Europa su origini e conseguenze del conflitto; dalle ricerche storiche si conferma fra l’altro la convinzione che le confessioni cristiane siano state in quei frangenti, consapevolmente o meno, elementi «acceleratori» dello scontro, anziché fautrici di pace. Don Bruno Bignami, cremonese, docente di teologia, alle spalle diversi volumi a carattere storico, presidente della Fondazione Don Mazzolari (sacerdote lombardo interventista nel 1914 e poi autore di «Tu non uccidere», manifesto del pacifismo cattolico) è autore de «La Chiesa in trincea. I preti nella grande guerra» (Salerno Editrice). Il volume sarà presentato a Roma il 6 dicembre.
Il titolo che ha scelto per il libro di certo suscita attenzione e sorpresa. Cosa vorrebbe significare l’espressione «La Chiesa in trincea»?
«Il titolo si rifà semplicemente alla trincea come luogo simbolico che ricorda la drammatica esperienza della prima guerra mondiale. L’‘inutile strage’, stando al linguaggio di Papa Benedetto XV, ha segnato anche la vita della Chiesa. Al proprio interno essa ha vissuto un travaglio tutt’altro che semplice almeno su due questioni: il fallimento del teorema della guerra giusta e la crisi di molti ecclesiastici che parteciparono alla guerra mettendo in discussione il rapporto tra Chiesa e mondo».
La sua ricerca si concentra anzitutto sui sacerdoti che, a vario titolo, presero parte alla «grande guerra». Con quale spirito finirono con la divisa dei diversi Stati belligeranti? Quale ruolo svolsero fra le truppe?
«Il ruolo del clero nell’inutile strage è di vario tipo. C’è un compito prezioso dei preti in parrocchia e una condizione particolare dei preti impegnati in prima linea. Per quanto riguarda i preti in parrocchia, essi erano spesso allineati con il neutralismo di Benedetto XV, perché vicini alle famiglie che soffrivano la fame e la guerra. La presenza di preti in mezzo all’esercito, invece, con funzioni religiose, incarichi sanitari o di supporto, testimoniava la fedeltà della Chiesa alla patria. Spesso il clero impegnato in guerra fu strumentalizzato per la sua capacità di raccordare patriottismo e docile obbedienza all’autorità costituita. Attraverso il servizio religioso si voleva infondere tra i soldati disciplina e senso del dovere. Soprattutto nel periodo di maggiore crisi, dopo la disfatta di Caporetto, i preti al fronte tornarono utili per intensificare la propaganda nazionalista».
Erano molti i preti in divisa?
«La prima guerra mondiale fu un banco di prova per i 22mila ecclesiastici militari che non trovarono spazio tra i cappellani (questi ultimo furono circa 2.500). Diecimila di questi erano novizi, chierici o seminaristi che finirono tra la massa dei soldati al fronte. Furono preferibilmente impiegati nei reparti di sanità o negli ospedali da campo. La condizione del prete-soldato era molto diversa da quella dei cappellani, in quanto si trovavano gomito a gomito con le fatiche, gli stenti e i drammi dei militari. Le lettere che inviavano dal campo testimoniavano la loro sete di pace, il desiderio che la guerra finisse al più presto. Molti vissero la vita militare come esperienza di prova della propria vocazione…».
Mentre Papa Benedetto XV definiva il conflitto come l’«inutile strage», molti preti e gli episcopati nazionali parteggiavano con una sorta di «spirito patriottico». Non è una contraddizione?
«Certo che lo è. Ciò testimonia il fallimento del teorema della guerra giusta: in un contesto di nazionalismo diffuso e di ideologia della patria, tipico della modernità, ogni Chiesa nazionale leggeva la realtà con gli occhiali della sua parte. Come farebbe un tifoso. Finiva così per giustificare qualsiasi ricorso alle armi per difendere il proprio popolo. Ciascuno vedeva nel Paese nemico un portatore di idee della modernità da contrapporre alla propria fedeltà cattolica. Così la Chiesa francese pensava alla Germania come al nemico da cui era partito il luteranesimo. Viceversa, la Chiesa tedesca riteneva di poter sconfiggere i francesi eredi dei principi del 1789, da cui derivava la dissoluzione della cristianità. Nella Chiesa italiana, infine, vi erano preti o vescovi che guardavano con favore alla cattolicissima Austria contro il laicismo francese o alla tradizione belga-francese fedele al Papa contro il protestantesimo tedesco. Parigi era dipinta come la Babilonia d’Occidente, mentre i tedeschi erano portatori del paganesimo anti-latino. Un bel caos!».
Chiesa in trincea significa anche Chiesa nel mondo, calata nel suo tempo. Vi si può ravvisare un’acquisizione che prenderà corpo mezzo secolo dopo con il Concilio?
«La guerra costrinse giovani preti, formati nei seminari della lotta antimodernista, a entrare in contatto con il mondo per uscirne trasformati. L’esperienza non lasciò nulla come prima. Una Chiesa che si pensava in contrapposizione con il mondo finì per capire che tutto andava ripensato. Il giusto atteggiamento era quello di stare dentro la storia. Laddove si giocavano i destini degli uomini, molti compresero che erano in atto trasformazioni irreversibili nel rapporto tra la Chiesa e il mondo. Il Concilio Vaticano II farà maturare definitivamente questa riflessione nella celeberrima costituzione ‘Gaudium et spes’. Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, saranno considerate pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo».