Prato

La guerra vera in Libia e quella (inutile) a Prato

di Damiano FedeliQuassù, nella quiete di Cerreto, l’eco delle polemiche pratesi non arriva neppure. Del resto, gli occhi di questi tredici profughi ospitati nella casa «Madonna della tenerezza» hanno visto ben altre guerre di quelle, grottesche, che si combattono fra le istituzioni cittadine e di cui, fortunatamente, non sanno nulla. È una guerra vera quella in Libia, da cui sono fuggiti, e che non dimenticheranno tanto facilmente queste tredici persone arrivate qui la scorsa settimana: due famiglie, una coppia originaria del Burkina Faso con una bimba di otto mesi, una coppia della Nigeria, sette uomini del Bangladesh, due del Pakistan. Provenienze tanto lontane e storie tanto diverse, ma con un comune denominatore: tutti quanti erano da anni a lavorare in Libia. Qui – quasi tutti a Misurata, una delle città più martoriate nell’attuale conflitto – avevano trovato un lavoro, chi come operaio, chi come camionista, chi, addirittura aveva un negozio. Una dignità e un relativo benessere che la guerra di Gheddafi ai rivoltosi che si oppongono al suo regime ha spazzato via.Felicia, 39enne nigeriana, è l’unica del gruppo a parlare qualche parola di italiano. Racconta del negozio di alimentari che aveva a Misurata. È timida, Felicia, e riesce a stento a esprimere la sua gratitudine: «sto bene qui», sorride. Quasi tutto il gruppo parla inglese: con i due pakistani, che parlano Urdu, fa da interprete uno dei profughi dal Bangladesh che conosce quella lingua, un piccolo segno di unione, se si pensa ai rapporti non certo idilliaci fra i rispettivi Paesi d’origine. Molto più loquace di Felicia è il marito, Stanley, 39enne. «Sono dal ’99 in Libia, a Misurata», racconta concitato. «Mio fratello mi aveva chiesto via sms una mano a procurargli delle provviste. Quando sono arrivato al negozio di mia moglie l’ho visto circondato dai soldati di Gheddafi. Mi sono precipitato dentro ed era una trappola. I soldati hanno arraffato beni e soldi, ci hanno ammanettati e ci hanno portato via. Volevano a tutti i costi che mi arruolassi nelle loro fila, come mercenario», racconta mostrando cicatrici di vere e proprie torture nelle braccia e nelle gambe. «Poi, un colpo di fortuna. Mia moglie è riuscita a liberarmi di nascosto e anche io ho liberato lei. Siamo scappati di notte e siamo rimasti nascosti per nove giorni. Poi, dalla spiaggia, a Misurata siamo saltati su un’imbarcazione. Non sapevamo la meta. Alla fine su quella barca ci siamo rimasti per venti ore, ma dopo due ore e mezzo si era già guastata, con chi sapeva qualcosa di meccanica che si affannava a fare qualcosa come poteva. Per fortuna poi ci ha salvato un elicottero italiano. Ci hanno portati a Lampedusa. Sarò eternamente grato al vostro Paese che ha salvato le nostre vite e vorrei lavorare per ripagare l’Italia di tutto quello che ha fatto e sta facendo per me».Storia simile per Ohle Hamidass, 30 enne, originario del Burkina Faso, camionista per una ditta di costruzioni in Libia. È lui il padre di Jessica, la bimba di otto mesi diventata la mascotte del gruppo. «Parlerà molte lingue la bambina», scherza mentre tutti fanno a gara a farle le feste nelle loro lingue. «Devo ringraziare Dio che ci ha salvato la vita. Laggiù volevano che mi arruolassi come mercenario. Con mia moglie, di 23 anni, abbiamo preso una decisione sofferta: lasciare tutto e tentare, innanzitutto di salvarci la vita». Ariful, 26 enne del Bengladesh, è uno della numerosa comunità di quel Paese arrivato fra i profughi a Prato. «Lavoravo la ceramica a Misurata, come molti dei bengalesi. Anche se siamo dello stesso Paese, ci siamo conosciuti solo sulla barca, dove siamo stati tre giorni, sottocoperta. Nella mia fabbrica cinque persone sono state uccise, li ho visti con i miei occhi i crimini dei soldati di Gheddafi. Anch’io sono grato all’Italia e spero di poter presto lavorare per ricompensarla». Masaud Choludhury ha 22 anni. Anche lui lavorava la ceramica e adesso non ha più niente, solo il sorriso dei suoi vent’anni con cui guarda a un futuro tutto da ricostruire. «Devo solo ringraziare Dio, che ho avuta salva la vita. Solo Dio».(dal numero 20 del 29 maggio 2011) Un arrivo che infiamma lo scontro Provincia-ComuneDi tutti gli scontri che in questi mesi hanno costellato la coabitazione di forze politiche opposte in Comune e Provincia, questo sui profughi si sta rivelando il più duro. L’incendio divampa nel pomeriggio di martedì 17. La Provincia fa sapere di aver avuto una richiesta ufficiale in mattinata dalla Regione che, «per fronteggiare l’emergenza profughi, ha chiesto ospitalità per circa 12/13 persone richiedenti asilo politico», piccola parte di una nave di 180 profughi in arrivo da Lampedusa a Genova. La Provincia dà risposta offrendo la disponibilità, verificata, di una struttura diocesana, la casa «Madonna della tenerezza» di Cerreto, gestita dalla Fondazione Opera Santa Rita, territorialmente all’interno del comune di Prato. Così, mentre l’assessore alle Politiche sociali, Loredana Ferrara, annuncia: «Con orgoglio contribuiamo, nella piena consapevolezza delle difficoltà della nostra comunità, a dare una risposta all’emergenza umanitaria che stanno affrontando, con responsabilità, il Governo italiano e la Regione Toscana», da parte sua l’assessore comunale all’Integrazione, Giorgio Silli, che da sempre si era detto contrario a ospitare profughi a Prato, già troppo pressata dalla presenza di stranieri, sbotta. E accusa la Provincia di aver scavalcato il Comune: «Il sindaco ha scritto una lettera ufficiale alla Regione, alla Provincia e alle Prefetture di Prato e Firenze, rinnovando l’impossibilità della Città di Prato ad ospitare sul proprio territorio altri profughi. Questo comportamento della Provincia, che ha cercato di accreditarsi con la Regione, dimostra un atteggiamento istituzionalmente scorretto verso di noi, ciò è assolutamente inaccettabile. Avevo offerto la disponibilità dei nostri uffici, a patto che i profughi fossero collocati negli altri comuni della Provincia, vista la ormai nota impossibilità a farlo della città di Prato. Ad oggi, a due mesi dall’inizio dell’emergenza, nessuno di questi comuni della Provincia che si era detto disponibile è realmente pronto ad accogliere profughi, e per questo si cerca di scaricare la patata bollente su Prato».I profughi arrivano mercoledì a Cerreto. E il botta e risposta si inasprisce. Il Pdl parla di «vendetta politica», il Pd di «centrodestra in tilt». L’Udc chiede di evitare che si strumentalizzi la solidarietà del Vescovo.Dopo un comunicato di fuoco contro Regione, Provincia e gli altri Comuni che «avevano manifestato disponibilità all’accoglienza ma ne risultano al momento esentati», il sindaco Cenni va a trovare i profughi venerdì, invitandoli a palazzo comunale quando avranno ottenuto i documenti di asilo, precisando che «ogni intervento è stato contro le istituzioni che hanno deciso di assegnare i profughi malgrado l’emergenza nel nostro territorio, non certo contro di loro».È ancora venerdì 20. Durante un’intervista a Radio Gas (il cui patron Marco Monzali nega uno spazio di replica a Silli, «non volendo ospitare indecenze nella mia radio» e aprendo un altro fronte di polemiche), l’assessore Ferrara minaccia di denunciare il Comune all’Unar, il dipartimento contro le discriminazioni razziali, a proposito delle ordinanze «anti» kebab e per la chiusura entro mezzanotte dei locali della Chinatown. Salvo poi fare marcia indietro: «La Provincia non vuole nessuna guerra e non intende alimentare nessuno scontro istituzionale con il Comune di Prato. È necessario invece riprendere il dialogo e, con l’aiuto della sensibilità del sindaco Cenni, trovare subito un percorso sinergico tra le amministrazioni, come anche il presidente Gestri ha auspicato ieri».D.Fed.