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La Francia e la «religione» della laicità

di Gaspare Mura Il presidente Chirac, accogliendo i risultati della commissione presieduta da Bernard Stasi, ha promulgato la legge sulla “laicità dello Stato”, che proibisce nei luoghi pubblici (scuole, tribunali, ospedali…) non solo l’ostentazione dello chador delle donne islamiche, ma anche la kippah ebraica nonché le croci cristiane di grandi dimensioni. Questa legge ha avuto dei precedenti illustri nella storia della Francia: nel 1789 la “Costituzione civile del clero” obbliga i sacerdoti cattolici al giuramento di fedeltà alla Repubblica e li trasforma in funzionari dello Stato; nel 1905 la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa afferma che “la Repubblica non riconosce, non stipendia e non sovvenziona alcun culto”, con la conseguenza di sostenere culturalmente l’agnosticismo dello Stato; e nel 1994 la circolare del ministro Bayrou vieta “l’ostentazione dei segni religiosi ostentatori a scuola” – disposizione poi disattesa dai tribunali civili in nome del diritto allo studio. All’uscita dal liceo francese di Roma, una studentessa intervistata sulla legge appena promulgata, ha offerto una risposta che è anche una spia sul vero significato della legge: “voi in Italia avete il cristianesimo, noi in Francia abbiamo la laicità”. Ciò significa, in altri termini, che la laicità, in Francia, è vissuta come una religione, ovvero, fin dall’epoca della Rivoluzione, pur con alterne vicende, come la religione della Repubblica.

Non è un caso allora che un ministro inglese, commentando questa legge, abbia affermato che nel Regno Unito essa non potrebbe mai venir promulgata, perché appartiene ad una tradizione culturale diversa da quella del modo anglosassone, e che rispecchia quindi un diverso modo di concepire la democrazia e, con essa, i valori del dialogo e della tolleranza. Andando alle radici culturali della legge francese sulla laicità, al di là di ogni polemica politica e religiosa, scopriamo allora che “tolleranza” e “democrazia” non hanno lo stesso significato nel contesto culturale francese e in quello anglosassone.

Nel contesto anglosassone infatti tolleranza significa soprattutto sottrazione delle differenze morali, politiche, estetiche, religiose, all’autorità e all’azione politica dello Stato, il quale deve piuttosto garantire, attraverso un sistema costituzionale di diritti, che tali differenze vengano rispettate nella loro specificità (cfr Rawls, Il diritto dei popoliSulla tolleranzaEpistola sulla tolleranza di Locke). La fonte dei valori che devono essere rispettati (sul piano etico, religioso, politico, economico) è qui l’individuo e non lo Stato; che non è fondatore, ma garante dei valori di fronte alla legge civile e penale (cfr Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista).

Viceversa, nel contesto culturale francese, il primato rispetto al riconoscimento dei valori e dei diritti non spetta agli individui o ai gruppi, ma allo Stato, inteso come espressione della “volontà generale”, già teorizzata da Rousseau, il quale scrive: “la volontà generale soltanto può dirigere le forze dello Stato secondo il fine per cui questo è stato istituito, cioè il bene comune… (cfr Rousseau, Il contratto sociale). Per questo lo spirito della concezione roussoiana della “volontà generale” ritorna anche in Marx; ma anche, come ha sostenuto George Mosse, nelle democrazie di massa che sono state alla base dei nazionalismi del XX secolo. “Il culto del popolo divenne così il culto della nazione e la nuova politica cercò di esprimere questa unità con la creazione di uno stile politico che divenne, in pratica, una religione laica… Come si giunse a ciò?… Fu il concetto stesso di volontà generale che portò alla creazione dei miti e dei loro simboli e la nuova politica cercò di spingere il popolo a partecipare attivamente alla mistica nazionale attraverso riti e cerimonie, miti e simboli, che davano un’espressione concreta al concetto di volontà generale” (cfr Mosse, Il culto del popolo e della volontà generale).

Queste considerazioni spingono a ritenere doverosa una distinzione di nozioni, ovvero quella tra laicità e laicismo. Se laicità infatti significa la distinzione tra ciò che appartiene alla sfera del religioso (Chiesa, teologia, istituzioni ecclesiastiche…) dalla sfera di ciò che è profano (politica, economia, scienze…), distinzione riconosciuta solennemente dalla costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, laicismo significa invece ideologia della laicità, assunta come valore oppositivo ad ogni altro valore, e quindi vissuta al pari di una ideologia religiosa che può divenire, ove le circostanze si presentino, intollerante e fondamentalista in modo speculare ai fondamentalismi religiosi. Il laicismo, come ideologia, non ha mancato di dare prove di intolleranza nei confronti dei diritti inalienabili dell’individuo in vari momenti della storia europea (cfr Baubérot, Histoire de la laïcité française). E per esso dovrebbero valere gli avvertimenti di due pensatori ebraici: Adorno, il quale scrive: “allorché si pone il diritto dello Stato al di sopra di quello dei suoi membri, è potenzialmente già messo in atto l’orrore” (Adorno, Minima moralia: meditazioni della vita offesaEclisse della ragione).

E’ da dire che nella tradizione filosofica e culturale italiana l’idea di “tolleranza” e di rispetto dei diritti della persona è più vicina alla concezione anglosassone che a quella francese. Umberto Eco, in una intervista a Repubblica dichiara: “forse si dimentica che tolleranza è diventato, nella storia del pensiero moderno, termine politico e filosofico, e si pensi alla Epistola sulla tolleranza di Locke o al Trattato sulla tolleranza di Voltaire. E’ in questo senso che la parola acquista la sua grande e storica dignità. Infatti il Dizionario della lingua italiana della Treccani tra le accezioni di tolleranza pone: ‘atteggiamento teorico e pratico di chi, in fatto di religione, politica, etica, scienza, arte e letteratura, rispetta le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle a cui egli aderisce, e non ne impedisce la pratica estrinsecazione'”.

Dunque, tolleranza in senso pienamente democratico e laico significa anche non impedire la testimonianza pratica della propria fede politica o religiosa. Per Viano, che risponde a uno studente sulla questione della tolleranza di fronte ai nuovi flussi migratori, “la tolleranza è una cosa che cambia. E facendo cambiare i suoi protagonisti, comporta dei rischi per l’equilibrio generale… adesso l’orizzonte è cambiato, appunto, le donne, il diritto alle condotte morali che ciascuno preferisce scegliere, il diritto all’abbigliamento. Adesso voi siete, in una scuola, siete vestiti ciascuno come volete. Sembra un cosa ovvia, banale, ma è una conquista recente”.

Il diritto all’abbigliamento fa parte dei diritti della persona. Come non ricordare che le nostre nonne, in varie regioni italiane (e ricordo la mia Sardegna), hanno portato il velo fino a non molti anni fa, con orgoglio femminile, e senza per questo sentirsi meno rispettate dagli uomini? Per Veca è necessario allora che la tolleranza, in una società democratica in continua trasformazione come la nostra, si trasformi da pacificazione dalle lotte religiose o politiche per cui ci si uccide, a valore intrinseco, che “cioè consenta la crescita, generi, incentivi le condizioni per la crescita del mutuo rispetto. Il mutuo rispetto… non dipenderà da teorie su ‘etica e politica’, non dipenderà da principi di una super teoria della tolleranza, ma dipenderà dalla estensione delle nostre capacità di riconoscere semplicemente, in qualsiasi volto che abbia sembianze o qualcosa di affine o tratti umani, qualcosa che riguarda anche noi” (Intervista su Etica e politica). Laicità, tolleranza, democrazia devono significare allora non solo norma o principio della libertà religiosa (cfr Abbagnano, Dizionario di Filosofia), e tanto meno una “tolleranza repressiva”, secondo la terminologia di Marcuse (cfr Marcuse, La tolleranza repressiva), che assegna solo allo Stato il diritto di “tollerare” ciò che politicamente sembra più conveniente, ma soprattutto un valore costruttivo che fa del rispetto verso ciò che altro e diverso il terreno nuovo dell’educazione dell’uomo del Terzo Millennio alla mondialità.

In una prospettiva cristiana, tolleranza, laicità e democrazia dovrebbero essere sinonimi di qualcosa di più profondo, ovvero sinonimo di solidarietà e di comunione. Non si tratta infatti solo, per il cristiano, di “tollerare” l’altro e di rispettarlo, ma di essere solidale con i suoi valori e di creare costruttivamente e positivamente quel clima di comunione per il quale sia anche possibile la condivisione dei valori.

E questa è l’anima che i cristiani dovrebbero sapere immettere nella società contemporanea. E per questo la scuola, diversamente da come la concepisce la legge francese sulla laicità, non deve essere il luogo del trionfo ideologico dell’agnosticismo laicista, ma piuttosto, e proprio laicamente, il luogo del confronto, dell’educazione al dialogo e al rispetto dell’altro, il luogo privilegiato dell’educazione ai valori del dialogo tra culture diverse e religioni diverse, e quindi luogo di formazione delle nuove generazioni a una mentalità capace di contrastare e di neutralizzare lo “scontro delle civiltà”.

Bene hanno fatto quindi le Chiese cristiane francesi, in una lettera al presidente Chirac, ad auspicare che la laicità non venga intesa come creazione di “spazi svuotati dal religioso”, ma come offerta di “spazi in cui tutti, credenti e non credenti, possano dibattere” in un clima di rispetto reciproco, di ascolto delle ragioni degli altri, per educare al dialogo e non allo scontro o alla propaganda. Qualora la laicità rifiutasse lo spazio al religioso, “diventerebbe eccessiva e si trasformerebbe trasformerebbe rapidamente in laicismo intollerante”.

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