Cultura & Società
La flora del tempo pasquale nei riti e nelle tradizioni
Il dramma cosmico e umano con il mistero divino della salvezza che sono riflessi e compendiati nell’anno liturgico, trovano nel periodo pasquale il loro culmine. Mentre nel Natale la base dell’edificio è la metafora astronomica che fa centro nel Sole, nella Passione e nella Pasqua la base metaforica è la Natura con il suo divenire indicato dalla luna con la logica del passaggio, la discesa nel sepolcro, la trasformazione, la resurrezione che si può compendiare nelle parole di Cristo: Se il chicco di grano non muore resta solo.
Per comprendere il senso delle cose, anche più alte, nulla è più efficace del confronto, del modello comparativo, dell’immagine concreta, particolarmente trattandosi di eventi, riti, riflessioni su una festa che fin dalle tradizioni bibliche e pagane era già impostata sulla vicenda del ciclo naturale, con animali, piante, elementi come l’acqua e il fuoco che entrano in gran numero nei simboli, nelle preghiere, nelle meditazioni, nei rituali e nella devozione popolare.
Nella Passione si tratta di momenti drammatici in cui il sacrificio del Verbo è accompagnato dal pianto della natura nel quale molte creature, attraversate dal dolore e dall’orrore del Calvario, subiscono metamorfosi indelebili che testimoniano ancora nella tenera celebrazione della leggenda la partecipazione del mondo al momento cruciale della Redenzione.
Il carattere della leggenda è proprio far parlare le cose in una lingua che può sembrare arbitraria, ingenua, facilmente confutabile e senza fondamento, ma che ha il merito indiscusso di stabilire un rapporto col mondo quando questo rimanga lontano e isolato nell’indifferenza.
Si ridesta all’inizio di primavera emettendo le nuove foglie. Si vuole che appaia improvvisamente a fior di terra appena nelle chiese, secondo la liturgia pasquale, s’intona il canto dell’Alleluia, da cui il nome, annunciante la resurrezione di Cristo, e quindi accompagna con la sua apparizione l’uscita di Gesù dal sepolcro.
Nei vari momenti rituali si nota la presenza dei vegetali: le erbe amare unite all’agnello, le benedizioni dell’olio, dell’acqua, del fuoco del cero fatto coi fiori dalle api, ornato di pine e anche Cristo appare in un giardino nell’aspetto di un ortolano. Nella Lucchesia era uso, dovunque uno si trovasse, al momento in cui si scioglievano le campane, di baciare la terra, e lo stesso si faceva sulla costa ricordando coloro che erano in mare e dicendo: Terra bacio e terra sono / Gesù mio chiedo perdono.
La pianta che è quasi una cerniera tra la Passione e la Resurrezione è l’Albero di Giuda, il Cercis siliquastrum, delle Leguminose. Sta per metà nella celebrazione leggendaria della Passione e per l’altra metà nell’annuncio della gioia pasquale e questo si ricava anche dai suoi numerosi nomi: Legno maledetto, Albero del tradimento, Albero del Diavolo, ma è chiamato anche Albero della Madonna, Fior di Maria perché dai fiori si formano frutti a forma di baccello e da questi escono semi usati un tempo per fare rosari. Quando fiorisce annuncia la Pasqua.
Secondo la comune leggenda è la pianta alla quale s’impiccò Giuda dopo il tradimento: a primavera è spoglia e mette fiori solitari o a grappoli sui rami e lungo il tronco scuro, cosa che ha suggerito immagini devote, come se questi siano le lacrime di Giuda, ovvero le gocce del suo sangue. Caratteristici sono i fiori inizialmente d’un bel rosa acceso che ornano i rami nudi, per cui è detto anche Ruttafuoco.
Avuta la borsa con i trenta danari dai Farisei, Giuda fu preso dalla disperazione e dal rimorso e vagò nella notte per la campagna finché si sedette sotto una pianta. Qui, pensando al suo tradimento, non resisté alla pena e, presa una corda, s’impiccò a un ramo. La pianta alla sua morte improvvisamente fiorì anche se era ancora spoglia e da quel giorno non cresce più alta e snella com’era una volta.
L’anima ebbe orrore di quella bocca che aveva tradito con un bacio il Signore, e se ne uscì per le viscere. Così fu presa dal vento che non la lascerà mai fino all’estremo Giudizio. Giuda vola notte e giorno a mezz’aria intorno al mondo e a ognuna di quegli alberelli è costretto a fermarsi e vedervi appeso il suo corpo dilaniato dai corvi e dai cani, soffrendo una pena che nessuno soffrirà mai.
In questa leggenda c’è un motivo molto profondo, che Dante ha colto nel suo simbolo folgorante, forse riprendendo proprio questa credenza popolare e fissandola in versi memorabili. Nel delineare la condizione dei suicidi nel XIII Canto dell’Inferno (103-108) Pier delle Vigne spiega a Dante che sia lui che i suoi compagni non rivestiranno mai più le proprie spoglie che hanno rifiutato con il suicidio: torneranno il Giorno del Giudizio a riprenderle, ma non le vestiranno. Tramutata l’anima in una pianta, il corpo resterà eternamente appeso ai rami nell’oscurità infernale:
Come l’altre, verrem per nostre spoglie, / ma non però che alcuna sen rivesta, / che non è giusto aver ciò ch’uom si toglie. / Qui le strascineremo, e per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi / ciascuno al prun dell’ombra sua molesta.
Per la Domenica delle Palme si usano propriamente, dove sono disponibili, palmizi, della Phoenix dactylifera, ovvero i ventagli della Palma di S. Pietro Martire, più bassa e meno imponente (Chamaerops humilis) detta anche Cefaglioli.
Altrove si portano in processione rami d’olivo, detti anche questi palme. L’olivo benedetto che si riceve dai fedeli in chiesa la domenica delle Palme viene portato dai fedeli alle proprie case, dove un tempo veniva distribuito nei vari ambienti. Era considerato come benedizione e inteso dalla gente nei modi più diversi come protezione. Era impiegato nei riti del culto domestico. Posto accanto all’acquasantiera a capo del letto, serviva a benedire la pioggia e il maltempo e a scongiurare le malattie. Anche l’acqua benedetta si portava a casa in occasione della Pasqua.
Particolari erano le piante legate all’uso di fare il sepolcro, vale a dire quell’allestimento di addobbi che si faceva e si fa ancora nelle chiese nei giorni della Settimana Santa, simulacro del sepolcro di Cristo, allestito a un altare secondario o davanti all’altar maggiore, con diverse piante. Un tempo ogni famiglia gareggiava nel preparare e offrire vasi ornamentali. In particolare venivano fatte crescere al buio graminacee, come grano, avena, orzo insieme a lupini, veccie che per mancanza di luce vegetavano assumendo un colore bianco, pallido, diafano, con i lunghi steli che traboccavano piangenti», dette nenniris in Sardegna. La base era costituita di piante verdi come azalee, ortensie, aspidistre e altri vasi disponibili. Su tutte si distinguevano le calle col fiore bianco e giallo, come fiammelle fioche con un alone chiaro di piccole fiaccole dall’aspetto mesto.
Il Corpus Domini con la sua processione, insieme ai petali di fiori multicolori, vede trionfare la ginestra, nel tempo abbondantissima, dal profumo inebriante, magna pars delle Infiorate che si stendono nelle strade per il passaggio del Santissimo. Il fiore più usato negli addobbi però è il giglio, altro fiore dal profumo penetrante.
La Pentecoste, Pasqua rosata o Pasqua di rose, ha come segno questo fiore, soprattutto nel colore rosso: in molte zone usa far scendere sui fedeli dall’alto nella chiesa una pioggia di questi petali, ricordo della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli in lingue di fuoco.