Toscana
La festa per l’unità d’Italia
Il 17 marzo 2011, ormai vicinissimo, è una scadenza di cui si è parlato molto per le polemiche che la data ha suscitato (anche all’interno del Governo) tra chi voleva che fosse una festa vera, con scuole e uffici chiusi, e chi invece non riteneva la ricorrenza tanto importante da essere celebrata come festa nazionale. Hanno vinto i primi e i secondi si sono dovuti adeguare. Ma quanti saprebbero rispondere se venisse chiesto loro cosa è successo il 17 marzo 1861, esattamente 150 anni fa? Pochi, temiamo, soprattutto fra i più giovani. Eppure si tratta della data che segna la nascita ufficiale del Regno d’Italia, con la proclamazione di re Vittorio Emanuele II.
In quel momento il Regno d’Italia era una sorta di espansione geografico-politica del Regno di Sardegna, ma da lì in poi il cammino di progressivo affrancamento dal centralismo piemontese e di allargamento dell’Italia fino agli attuali confini non ha conosciuto soste, pur fra gli alti e bassi della Storia. Non sono mancati enormi problemi da affrontare, come le complesse procedure per uniformare l’assetto legislativo, la mancanza di risorse finanziarie, la creazione di una moneta unica per l’intera penisola, la gestione delle terre, la povertà diffusa, l’analfabetismo e la mancanza di infrastrutture. Ma il progresso è stato costante.
Non è questo il luogo per tracciare un bilancio dell’eredità politica o sociale lasciata da questo processo storico, ma certamente il momento per le celebrazioni di un anniversario che non può essere in alcun modo sottovalutato. Tutti (o quasi) d’accordo sull’importanza di questa festa, ma sui media moderne grancasse di qualunque evento importante a pochi giorni dall’appuntamento gli spazi dedicati alla data del 17 marzo e a ciò che essa significa sono ancora scarsi.
Qualche quotidiano ha proposto sporadiche pagine monografiche sui momenti salienti della spedizione dei Mille o sulle svolte storiche dell’epoca risorgimentale, alcuni periodici hanno prodotto sintetici inserti ad hoc, la tv di Stato ha «targato» con il logo del 150° una serie di trasmissioni speciali, la bandiera tricolore è comparsa qua e là ma la sensazione complessiva è che, in fondo, questo anniversario non desti nella popolazione italiana più di tanto interesse. Una veloce ricognizione sugli argomenti prevalenti in queste settimane negli spazi delle cronache nostrane, meno importanti ma più coinvolgenti dal punto di vista emotivo e spettacolare, conferma questa indicazione.
A livello locale non mancano le iniziative e le proposte, soprattutto nelle città che sono state più direttamente coinvolte nel cammino verso l’unificazione. Per questo, paradossalmente, sono le testate giornalistiche e televisive locali a dedicare i maggiori spazi ai 150 anni dell’Unità. Ci si potrebbe aspettare il contrario, con le testate a diffusione nazionale impegnate a ribadire i principi fondamentali di questa Unità, a maggior ragione in un periodo come quello attuale in cui l’attenzione si concentra troppo spesso sulle differenze e sulle contrapposizioni, non soltanto di campanile.
Il 17 marzo si celebra il 150° dell’Unità d’Italia. Per l’occasione il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, presiederà una Messa nella basilica di santa Maria degli Angeli a Roma. «Non devono stupire il sostegno e la sottolineatura della Chiesa a questo significativo anniversario», ha commentato Giuseppe Dalla Torre, giurista e rettore della Lumsa. Lo abbiamo intervistato.
Il Risorgimento è nato in ambito principalmente anticlericale, eppure oggi sono proprio i cattolici i maggiori sostenitori del 150° dello Stato unitario. Perché?
«Non esiste solo un Risorgimento scomunicato. Indubbiamente c’è stato un serio conflitto tra Stato e Chiesa, ma insistervi eccessivamente come spesso ha fatto la storiografia conduce ad una lettura parziale che non fa cogliere a pieno la profondità e complessità dei processi che hanno portato all’Unità, e fa dimenticare quel moto risorgimentale cattolico che conta esponenti come Pellico, Manzoni, Rosmini e Gioberti. I cattolici hanno offerto un contributo fondamentale a fare gli italiani, ossia la base dell’unità politica. Senza questa identità comune l’unità politica non avrebbe retto».
Dopo il Forum del progetto culturale dedicato all’Unità, la Messa del card. Bagnasco il 17 marzo. Come se lo spiega?
«La Chiesa italiana auspica che questa commemorazione non abbia funzione meramente evocativa o celebrativa, ma sia un richiamo per il presente e il futuro. Di fronte ad una società che rischia di vedere attenuati il senso di identità e appartenenza, mi sembra che la preoccupazione della Cei sia quella di far riscoprire nelle radici comuni le ragioni dello stare insieme oggi e domani per rinsaldarle. Il discorso investe due aspetti. Nell’attuale contesto italiano multietnico e multiculturale occorre un’identità nazionale ben forte. Ma vi sono anche implicazioni interne. I fenomeni dei localismi, di per sé non negativi, debbono essere orientati verso profili di autentica solidarietà per rafforzare l’unità nazionale scongiurando il rischio di disgregazioni».
Quale, secondo lei, il ruolo dei cattolici nel Risorgimento, soprattutto a livello di territorio accanto alla gente comune?
«Il conflitto verificatosi a livello istituzionale non a livello di società tra Stato e Chiesa ha portato tra l’altro al non expedit. Con l’astensione dei cattolici dalla vita politica il loro impegno e le loro energie si sono convogliate nel sociale: istituzioni educative, caritative, assistenziali. Negli anni dello Stato liberale i cattolici hanno lavorato intensamente in questo ambito, in maniera capillare e con un fortissimo radicamento sul territorio, immettendo un capitale di esperienza, idee e pensiero che nel secondo dopoguerra ha concorso in modo rilevante alla creazione di una società nuova e diversa, sostanzialmente ispirata ai grandi valori della solidarietà, della socialità e della sussidiarietà».
Qualche esempio, al di là degli episodi più noti legati alle istituzioni religiose o al nascente associazionismo cattolico?
«Un evento marginale ma significativo: nel 1865 venne introdotto il matrimonio civile obbligatorio. Di lì partì l’impegno sociale dei parroci di informazione e sollecitudine nei confronti delle masse rurali incolte, per le quali il matrimonio era solo quello celebrato in chiesa, per convincerle a recarsi anche in Comune, pena il non riconoscimento degli effetti civili. Un impegno particolarmente prezioso in caso di guerra, quando i mariti solo canonici avrebbero lasciato vedove non riconosciute come tali. E ancora, il prezioso ruolo dei cappellani militari. Durante la prima guerra mondiale in cui centinaia di migliaia di poveri contadini analfabeti hanno conosciuto la tremenda vita di trincea, l’unico a tenere per loro i contatti con la famiglia, a scrivere e leggere loro le lettere, ad ottenere e trasmettere informazioni tentando di mantenere una dimensione di umanità in quel contesto disumano, era il cappellano militare. Ancora una volta l’espressione dell’impegno della Chiesa, attraverso i suoi uomini, per l’animazione umana oltre che religiosa della società civile».
Quale il contributo dei cattolici nel vuoto politico-istituzionale del 1943?
«Chiamandolo ad una duplice responsabilità. Anzitutto di tipo sostanziale: la religione non demonizza la politica, ma prevede un impegno concreto. Per il credente, quindi, essere un buon cittadino e offrire il proprio contributo alla crescita della società civile è un dovere religioso. Il secondo compito attiene alla pedagogia: mi sembra che le agenzie educative scuola, parrocchia, associazione e oratorio dovrebbero imprimere nuovo vigore alla formazione delle nuove generazioni all’amore di patria, al senso di cittadinanza e allo spendersi per il bene comune».