Toscana
La discriminazione
Razzismo diretto e indiretto
I termini «razzismo» e «discriminazione» hanno molti risvolti propri dei campi delle scienze giuridiche, filosofiche e sociali che permettono di fornire una definizione scientificamente accettabile che permetta di essere assunta anche nel campo giuridico.
Possiamo distinguere varie forme: il razzismo ideologia, il razzismo pregiudizio e il razzismo come pratica discriminatoria. La prima forma richiama le ideologie del secolo scorso del nazismo e del fascismo che fondavano le proprie convinzioni sulla differenza biologica tra le razze e sul loro rapporto di inferiorità e superiorità; nel secondo caso il razzismo si manifesta come idee e credenze radicate nella collettività; più complessa è l’indicazione della terza tipologia che fa riferimento ad una visione differenzialista e la paura della sopraffazione e dell’annientamento dell’identità come espressione di razzismo giuridicamente e penalmente rilevante.
Oggi il razzismo, come ha evidenziato nei suoi studi Michel Wieviorka, non sottolinea l’aspetto della differenza biologica e della connessa superiorità/inferiorità della razza; ma bensì arricchisce le proprie argomentazioni con immagini simboliche che permettono di elaborare un ideologia legata al tema della diversità, enfatizzandola per giungere alla conclusione del pericolo di mescolare identità, religioni, culture così differenti.
In questa fase storica questa nuova versione di razzismo si ritaglia su una società che presentandosi sempre più multiculturale, tende a enfatizzare la differenziazione e a emarginare il «diverso»; basti pensare a tutta la politica di emarginazione dell’etnia Rom e Sinta, relegata in campi nomadi ai bordi delle nostre periferie.
L’antirazzismo giuridico allarga, così, l’ambito applicativo di ciò che propriamente va sotto il nome di «razzismo» La criminalizzazione del razzismo è stata estesa a comprendere ogni forma di credenza esclusivista in nome della tutela del differenzialismo relativista.
Questa ideologia, una volta riconosciuta la differenza culturale che rende questi soggetti «inassimilabili» e «non – integrabili» li raggruppa in quanto soggetti pericolosi e su questa base giustifica le misure di esclusione e di espulsione.
Il D. Lgs. 286/1998 determina la riformulazione della definizione di discriminazione e qualifica come tali, comportamenti specifici posti in essere da determinate categorie di soggetti.
Il D. Lgs. 286/1998 ricomprende ogni attentato, limitazione o pregiudizio, cioè ogni comportamento che «abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
La disciplina contenuta sia nell’art. 43 che nell’art. 44 si estende «agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia».
La definizione permette di comprendere la discriminazione in ragione della provenienza territoriale all’interno del Paese (o della convinzione che all’interno di una nazione vi siano più etnie, es. i «meridionali» ed i «padani»). Ma alla discriminazione dello straniero è già equiparata testualmente dal D. Lgs.286/1998 la discriminazione razziale ed etnica: in questo senso depone la formula ampia «atti xenofobi, razzisti o discriminatori». Dunque, il D. Lgs. 286/1998 disciplina la discriminazione ai danni dello straniero, del cittadino italiano, dell’apolide, del cittadino di altri Stati membri dell’Unione Europea, che sia motivata dalla razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, religione.
Ne discende che il D. Lgs. 286/1998 si applica a chiunque.
In seguito all’entrata in vigore del provvedimento testé citato sono state trasposte nell’ambito del nostro ordinamento due direttive dell’Unione Europea: la Direttiva n. 43 e quella 78 del 2000: la prima recepita con il D. Lgs. n. 215/2003, riguarda il principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e l’origine etnica; la seconda, con il D. Lgs. 216/2003, stabilisce la parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro.
La normativa europea amplia il settore delle discriminazioni indirette, altra novità introdotta dalla direttiva è data dall’inserimento del concetto di molestia.
La nozione di discriminazione contenuta nelle normative esaminate si qualifica come multipla, e dunque della compresenza di più «elementi di diversità» etnia e nazionalità; razza e nazionalità; razza e religione; e così via con la conseguenza che diviene facile individuare l’intento discriminatorio anche senza individuare esattamente quale sia stato l’«elemento di diversità» posto dal soggetto attivo a base del proprio comportamento e senza attribuire contorni definiti all’espressione legislativa «razza o etnia».
Il procedimento consta di due fasi: la prima, sommaria, che sembra ricalcare la disciplina del procedimento cautelare ex art. 669 e ss. c.p.c. 31, in cui la domanda viene proposta mediante ricorso ed in cui, ad una sommaria istruzione, segue un’ordinanza di accoglimento o rigetto della domanda, rinviando ad una successiva udienza l’eventuale conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto.
La seconda fase consiste in un giudizio di merito in cui si ha un attività di cognizione con la comparizione delle parti davanti al giudice che potrà confermare, modificare o revocare il provvedimento adottato nella prima fase, e si chiude con la decisione, qualificata come sentenza, con cui il convenuto può essere condannato al risarcimento del danno anche non patrimoniale.
Contro l’ordinanza emessa dal giudice unico, è previsto il reclamo al Tribunale, che decide in composizione collegiale.
L’inosservanza dei provvedimenti disposti dal Tribunale, in composizione monocratica o collegiale, costituisce il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento giudiziario.
Per quanto riguarda il provvedimento finale il decreto prevede un’ampia gamma di provvedimenti che abbiano lo scopo di far cessare il comportamento discriminatorio e rimuovano gli ostacoli e determinino un piano per la rimozioni delle discriminazioni e di azioni positive valutabili anche nel medio e lungo termine.
Pertanto nel decreto 215/2001, nell’attuare il rinvio il legislatore esclude quelle disposizioni che distinguono il procedimento in due parti, stabilisce che l’effetto del provvedimento debba essere la rimozione della discriminazione con la liquidazione del danno e come sanzione accessoria prevede la pubblicazione della sentenza.
La dottrina ritiene, in merito ai due procedimenti delineati, che debbano essere tenuti in considerazione ambedue cogliendo i vantaggi dell’uno e dell’altro: quello della normativa italiana che prevede una fase cognitiva più ampia che potrebbe soddisfare meglio le istanze risarcitole e quello della normativa europea che si presenta in forma più immediata per la cessazione della discriminazione.
Altro aspetto contenuto nella direttiva sono le azioni positive. Ad esempio nei confronti della popolazione Rom che soffre di discriminazioni nel settore abitativo, lavorativo, educativo e dei diritti alla salute, potrebbero essere messe in atto delle misure che agevolino la loro partecipazione ai fini dell’assunzione e della formazione.
Ulteriormente, l’undicesimo comma dell’art. 44 prevede per le imprese cui siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti o che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, una sanzione amministrativa, peraltro non ancora adottata nella giurisprudenza finora edita, consistente nella revoca del beneficio o, addirittura, nell’esclusione del responsabile da qualsiasi concessione ulteriore di agevolazioni finanziarie o creditizie, così come da qualsiasi appalto.
Il settimo comma dell’art. 44 dispone che, alla fine del giudizio di merito, «il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale», da intendersi in questo caso come comprensivo del danno morale.
Questo aspetto è estremamente rilevante dal momento che conferisce alla normativa un’efficacia preventiva e dissuasiva del sistema della responsabilità civile.
La direttiva estende tale previsione non solo alle cause sorte in ambito lavorativo, come l’art. 44 comma 10 del T.U. ; ma in tutti gli ambiti in cui si verificano delle discriminazioni, per garantire ai soggetti più deboli l’accesso alla giustizia.
L’art. 44 comma 12 T.U. prescrive alle Regioni di predisporre in collaborazione con gli Enti Locali e le associazioni degli immigrati e del volontariato sociale appositi centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’art. 5 del D. Lgs n. 43/2003, al primo comma, attribuisce alle associazioni e agli enti che siano inseriti nell’apposito elenco approvato con decreto interministeriale, la legittimazione ad operare in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione.
La normativa attribuisce alle associazioni una rappresentanza diretta ed un autonoma facoltà di intervenire «ad adiuvandum» per sostenere le ragioni del soggetto discriminato.
Il medesimo articolo richiede la delega per atto pubblico o scrittura privata autenticata che legittima il sostegno alla vittima della discriminazione: tale aspetto non pare del tutto comprensibile, poiché la partecipazione al giudizio si qualifica come intervento ad adiuvandum.
Abbiamo rivolto ad Udo C. Enwereuzor responsabile per conto del Cospe di Raxen alcune domande in relazione all’ultimo rapporto presentato a Firenze nel mese di febbraio.
Da un punto di vista normativo quali sono state le novità che avete registrato e la valutazione che ne avete dato?
«Nel 2006 vi sono stati pochi sviluppi legislativi rilevanti. Il cambiamento più significativo ha riguardato l’approvazione di una nuova legge sui reati d’opinione, che modifica gli articoli del codice penale sull’incitamento all’odio razziale, rendendo le pene più lievi. La nuova legislazione, inoltre, estende ad altre religioni la tutela già prevista per la religione cattolica in materia di offese contro il sentimento religioso o un’autorità religiosa, atti vandalici contro chiese, templi e altri luoghi di culto».
Quali sono gli ambiti in cui si registrano le maggiori discriminazioni?
«Gli immigrati continuano ad essere relegati in impieghi precari, con difficili condizioni di lavoro caratterizzate da orari lunghi, bassi salari e indennità non riconosciute. La maggior parte di loro ricopre mansioni non specializzate, compie pochissimi progressi in carriera e per gli immigrati regolari provenienti da paesi terzi resta attualmente impossibile l’accesso al pubblico impiego. Le notizie sulle violenze razziste provenienti sia da organismi nazionali che internazionali, sottolineano come nei Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta) si verifichino quotidianamente episodi di maltrattamenti e siano perpetrate violazioni dei diritti umani e violenze di vario genere. Sebbene non possano essere definiti come violenza razzista stricto sensu, i maltrattamenti subiti dai cittadini immigrati durante la loro permanenza nei centri devono essere considerati gravi violazioni dei diritti individuali fondamentali».
La differenza di genere comporta delle differenze nei comportamenti discriminatori?
«Un’alta percentuale di donne immigrate è confinata nel lavoro domestico e di cura, settori in cui il fenomeno delle discriminazioni multiple è molto esteso. In questo modo, le donne immigrate scontano la progressiva riduzione delle risorse destinate ai servizi sociali».
La progressiva privatizzazione dei rapporti di lavoro nella pubblica amministrazione e la carenza di personale autoctono per talune mansioni, hanno creato fenomeni di segmentazione «etnica» del mercato del lavoro in alcuni settori dell’amministrazione pubblica, come quello della sanità. La vostra ricerca si è soffermata anche su questo aspetto?
«Tutte le sentenze emesse nel 2006 riguardanti le discriminazioni nel settore dell’occupazione riguardano il problema dell’accesso dei cittadini non comunitari al pubblico impiego. Mentre la maggior parte delle sentenze dei tribunali ordinari considerano discriminatorio l’utilizzo della cittadinanza come requisito essenziale e determinante per l’accesso all’impiego pubblico (per impieghi che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri e che non attengono alla tutela dell’interesse nazionale), le sentenze dei tribunali amministrativi tendono a considerare legittime le esclusioni basate sulla mancanza del requisito della cittadinanza. Questa situazione sta creando dei grossi problemi ad esempio nell’ambito della professione infermieristica, dove il personale extracomunitario è inserito nelle strutture sanitarie pubbliche prevalentemente attraverso il sistema delle cooperative o delle agenzie interinali, scontando dunque condizioni di precarietà e di disparità di trattamento salariale e di condizioni di lavoro rispetto al personale autoctono inserito negli organici di ruolo».
Nell’ambito del sistema scolastico assistete ad una congiuntura tra gli episodi di bullismo sempre più allarmanti e la discriminazione nei confronti degli alunni stranieri?
«Il sistema educativo italiano è generalmente giudicato inclusivo, tuttavia anche nel 2006 emergono elementi che confermano l’esistenza di situazioni di discriminazione vissute dagli alunni con cittadinanza non italiana. Il principio ispiratore della politica di inclusione dei ragazzi non italiani resta l’educazione interculturale, costruita sui concetti di promozione della diversità e del dialogo tra le persone e le culture, senza però necessariamente mettere in dubbio le disuguaglianze esistenti e promuovere la parità di opportunità e di trattamento. Il numero di bambini non italiani nelle scuole continua ad aumentare, sia nei numeri assoluti che in termini di incidenza sulla popolazione totale della scuola».
Il nostro Stato ha voluto che il primo articolo della Costituzione affermasse «La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro .» e l’art. 3 «…senza distinzioni etniche, religiose, linguistiche .»: ciò dimostra che da sempre siamo un Paese che riconosce il valore dell’integrazione tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri.
Nonostante ciò, ancora oggi, in vari settori della vita sociale ed economica vengono segnalati episodi discriminatori che possono rischiare di compromettere la tenuta e la coesione di una società ormai definitivamente multietnica.
A Firenze, città accogliente da sempre e con una grande apertura culturale, la discriminazione sul lavoro è presente, ma al tempo stesso combattuta dalle forze vive della società.
Il sindacato si batte con i propri delegati sui luoghi di lavoro, cercando di far cultura sindacale e solidale con tutti i lavoratori sia italiani che stranieri.
I casi più frequenti di discriminazione vi sono tra i lavoratori domestici, edili e nel settore delle pulizie.
In generale, i lavoratori hanno un grado di istruzione non elevato oppure non conoscono la nostra società e quindi non conoscono in concreto i loro diritti.
Inoltre, caso strisciante di discriminazione è quello di assumere stranieri con livelli retributivi più bassi a parità di mansione con i lavoratori italiani. Questo atteggiamento è giustificato dai datori di lavoro dal momento che la legge italiana non riconosce il titolo di studio rilasciato nel Paese di provenienza.
La Cisl di Firenze convinta che questi ostacoli debbano essere superati da politiche di inclusione ha formato operatori con competenze specifiche in grado di risolvere le diverse situazioni tenendo sempre presente la delicatezza della questione e il rapporto che c’è tra denunciante e datore di lavoro.
Per questo la Cisl si impegna a fornire a questi lavoratori gli strumenti base per conoscere i loro diritti e doveri sul lavoro ben sapendo che il contrasto ad ogni forma di discriminazione su base etnica e razziale è la sfida più importante del terzo del terzo millennio per arrivare a una Firenze multirazziale e multietnica.
La scheda
Il progetto ha portata nazionale, tuttavia prevede la sperimentazione in alcuni contesti territoriali situati in sei regioni«campione» tra cui la Toscana, scelte in quanto rappresentative sia dei settori produttivi ad alta presenza di lavoratori stranieri (servizi alla persona, lavoro agricolo stagionale, manifatture, esercizi commerciali) sia delle diverse aree geografiche (nord ovest, nord est, centro, sud e isole).
Realizzazione di campagne di comunicazione rivolte ai beneficiari finali e intermedi.
A partire dalla sperimentazione realizzata, creazione di un modello trasferibile che tenga conto delle caratteristiche del contesto geografico e produttivo e dell’offerta di lavoro straniera. Creazione di tavoli di concertazione regionali e interregionali finalizzati a trasformare le sperimentazioni in prassi corrente (mainstreaming), creando occasioni di scambio e diffusione orizzontale e verticale sulla sperimentazione degli sportelli e sulle elaborazioni di modelli trasferibili coinvolgendo tutti gli stakeholders del progetto. Attraverso questi tavoli si vuole promuovere l’attivazione di altre «reti indipendenti di iniziativa territoriale antidiscriminazione» su tutto il territorio nazionale. Diffusione dei risultati del progetto attraverso un sito Internet.
La testimonianza
La maggior parte dei Paesi europei non riconoscono i Rom come minoranza. Anche in Italia non siamo riconosciuti come minoranza linguistico culturale. Nel Parlamento ora sciolto era stato presentato un disegno di legge per il riconoscimento dello status di minoranza linguistico culturale, finora negata perché i Rom non hanno un proprio Stato e non risiedono in un territorio definito.
Noi Rom non abbiamo mai combattuto guerre per ottenere un nostro Stato, semmai siamo stati sempre vittime di guerre altrui. Durante la seconda guerra mondiale, il popolo Rom è stata vittima di un genocidio (anche se di questo si parla poco o niente, il fatto sembra quasi non essere riconosciuto): da 500.000 a 800.000 Rom sono stati massacrati nella camere a gas. Nessun Rom ha avuto un risarcimento dal processo di Norimberga.
Il più recente esodo si è verificato in occasione della guerra balcanica, dove interi quartieri Rom sono stati bruciati e distrutti. Ciò che non sono riusciti distruggere i soldati serbi ed albanesi, lo hanno fatto gli aerei della Nato. Così, senza niente, ci siamo trovati qui in Italia dove abbiamo perso la nostra identità di persone, assumendo il nome di «nomadi» (il nomadismo per noi Rom della ex Jugoslavia era scomparso da secoli; noi siamo assolutamente sedentari: i nostri figli frequentavano le scuole e noi lavoravamo come tutti gli altri cittadini ); o il nome di «zingari», con il quale si esprime la concezione di quelli che rubano, che sono sporchi, che non sono affidabili, che costituiscono un pericolo per la società in civile.
La discriminazione sui Rom si verifica molto spesso, in forma nascosta o aperta, e pochissime volte viene denunciata. Quando va bene siamo «immigrati» (anche se poi molti di noi sono da anni e anni in Italia). Ma per moltissimi gagé (ndr, così i Rom usano chiamare gli italiani) siamo solo «clandestini» e «microcriminali».
Mi piace sottolineare il corretto lavoro di tanti operatori sociali nel programma speciale «Le Città sottili» di Pisa, rivolto all’inserimento abitativo, lavorativo e scolastico, per sottrarci ai campi ed alle baraccopoli. Non posso invece capire quelli che provano odio su di noi, e vogliono che continuiamo a vivere nei campi e nelle baraccopoli. La nostra cultura di vita non è abitare in campi o baracche: siamo stati costretti a viverci, in fuga dalle guerre o perché perseguitati.
Oggi occorre un coinvolgimento reale e collaborativo della comunità Rom negli interventi in questo settore, senza che nessuno ci venga a insegnare cosa dire, cosa fare e cosa pensare. Soprattutto occorre fare in modo che tutti i bimbi Rom possano frequentare le scuole e finire gli studi.