Cultura & Società
La difficile conquista dei diritti dell’uomo
di Romanello Cantini
Per un lunghissimo periodo di tempo non c’è stata al mondo altra autorità riconosciuta nel concedere e negare diritti umani che non fosse il singolo stato. Per la prima volta sessant’anni fa con la Dichiarazione dei diritti dell’Onu almeno teoricamente i diritti sono stati riconosciuti ad ogni uomo indipendentemente dallo stato a cui appartiene. E il riconoscimento di questi diritti universali non era limitato ad un settore come era accaduto nel 1899 con il diritto umanitario sancito alla conferenza dell’Aia, nel 1926 con la proibizione della schiavitù da parte della Società delle nazioni, nel 1930 con la condanna del lavoro forzato da parte dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Né i diritti riconosciuti nel 1948 erano ristretti dentro le quattro libertà di espressione e di culto, dal bisogno e dalla paura care al presidente Roosvelt e che erano entrate nella Carta dell’Onu tre anni prima. La Dichiarazione del dicembre di sessant’anni fa riguardava la totalità dei diritti così come si erano venuti definendo verso la metà del secolo scorso anche per reazione ai totalitarismi che avevano dominato nella prima metà del secolo ed ad una guerra in cui la violazione dei diritti era stata norma.
Oggi ufficialmente la Dichiarazione del 1948 è stata recepita da quasi tutti gli stati del mondo e dichiarazioni regionali si sono aggiunte al testo mondiale (1950) nelle Americhe (1969) in Africa (1981) con l’eccezione dell’Asia.
Tuttavia anche se da allora sono passati sessant’anni ci vuole coraggio a sostenere che i diritti dell’uomo sono oggi universalmente applicati oltre che universalmente dichiarati. In almeno un quarto dei paesi del mondo si continua a far sparire o ad arrestare i nemici politici oltre che praticare la tortura. Le persone tenute di fatto in condizione di schiavitù come domestiche o come lavoratori senza limiti di orario sono ancora decine di milioni. Oltre duecento milioni di bambini lavorano regolarmente nel mondo, centinaia di migliaia sono sfruttati sessualmente soprattutto in Estremo Oriente, decine di migliaia sono costretti a combattere nelle guerre più diverse e a decine di milioni di bambine è stato proibito di nascere in Asia una volta individuate come tali alla ecografia prenatale. In alcuni stati si corre ancora il rischio di essere condannati a morte per apostasia, mentre in situazioni sempre più frequenti si può quasi impunemente perseguire fino anche all’assassinio chi appartiene ad una minoranza religiosa. E questi episodi di fanatismo religioso sono tanto più gravi perché la libertà religiosa è stata fra le prime libertà universali che si è cercato di garantire tanto che nel corso dell’Ottocento il primo tentativo di sottrarre all’esclusiva competente degli stati la tutela di alcuni diritti avvenne proprio sul terreno della tutela delle minoranze religiose quando, ad esempio, le principali potenze europee cercarono di ottenere con speciali trattati dall’Impero Ottomano la tutela dei non musulmani. E per la verità giù sessant’anni fa non fu molto incoraggiante il fatto che i pochissimi paesi arabi che allora erano rappresentanti all’Onu si astennero sulla dichiarazione proprio per il problema della libertà religiosa.
E tuttavia, nonostante tante sconfitte, l’affermazione dei diritti si fa strada seppure lentamente e faticosamente in virtù anche dei meccanismi che la Dichiarazione di sessant’anni fa ha messo in moto.
La Dichiarazione dei diritti ha permesso che si creasse al di sopra degli stati una istanza superiore a cui si potesse ricorrere impedendo così che ogni libertà non solo potesse morire, ma rimanere anche sepolta all’interno di uno stato. La dichiarazione universale ha dato il via alla nascita di centinaia di organizzazioni non governative impegnate ad operare sul terreno dei diritti umani che sono servite da organo di pressione sulla opinione pubblica, di informazione al di fuori degli stati e di consulenza per la stessa Onu. Per un lungo periodo quasi il novanta per cento delle notizie di violazione dei diritti umani sono state segnalate da Amnesty International con i suoi duecento ricercatori. Ed è soprattutto in virtù del lavoro delle Ong sul terreno che sono stati portati alla ribalta quei personaggi simbolo della difesa dei diritti umani dal sudafricano Desmond Tutu, alla Birmania Aung San Sun Kyi che, con il loro premio Nobel, hanno posto i drammi di un angolo del mondo sul palcoscenico dell’attenzione mondiale.
La lotta per i diritti umani avviene anche intorno al modo di funzionare dell’Onu e richiede modifiche che spesso ottengono effetti opposti. La commissione dei diritti umani dell’Onu che pure era nata su pressione delle organizzazioni non governative americane, è diventata spesso non solo una sede per condannare, ma anche una occasione per autoassolversi con la forza del numero e il mercato dei perdoni reciproci. Finché la commissione è rimasta in funzione al suo interno ha prevalso spesso la difesa dell’onore etnico di appartenenza rispetto alla difesa dei diritti umani. Talvolta gli africani hanno fatto blocco perché non si condannasse nessun paese africano e i paesi islamici hanno fatto blocco perché non si condannasse nessun paese islamico. Fra i cinquantatré membri della commissione per i diritti dell’uomo c’è stato il Sudan e nel 2003 il presidente della commissione è stato l’ambasciatore libico.
La battaglia condotta per nove anni dal segretario Kofi Annan perché l’Onu ottenesse un diritto di ingerenza all’interno degli stati quando gli stessi governi si rendessero responsabili di gravi violazioni dei diritti umani è stata per il momento una battaglia persa di fronte al fuoco di sbarramento condotto contro questa proposta dagli stati più autoritari in nome di quel rifiuto della università dei diritti considerata «imperialismo culturale» che oggi rappresenta la minaccia ideologica più insidiosa contro l’applicazione dei principi della Dichiarazione. Solo la istituzione del Tribunale internazionale cinque anni fa ha costituito un parziale deterrente almeno per i «crimini contro l’umanità».
La Dichiarazione dei diritti umani segnò a suo tempo una tappa importante anche per la difesa di due diritti intorno a cui oggi tanto si discute soprattutto in Europa. L’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti è molto esplicito sul tema della famiglia («La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società ed ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo stato»). E l’articolo 3 è altrettanto categorico («Ogni individuo ha diritto alla vita»). E queste definizioni venivano in un momento in cui il diritto alla vita per gli handicappati e i malati cronici era stato negato con la eugenetica o con l’eutanasia non solo nella Germania hitleriana, ma anche più o meno segretamente in altri paesi occidentali. Il via in fondo ad una pratica che aveva alla base il darwinismo sociale l’aveva già dato Nietzsche che aveva cercato di raccogliere seppure con il suo solito scherzare atroce perfino certe giustificazione di pietà che anche oggi hanno peso. «I deboli e i mal riusciti devono perire. Prima massima della nostra carità». Al contrario nel pieno della seconda guerra mondiale quando erano funzionanti industrie di stato per la soppressione dei più deboli parlando della figlia Francoise colpita da una gravissima forma di encefalite Emanuel Mounier aveva trovato un senso anche a quella umanità estrema. «Per molti mesi avevamo augurato a Francoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire ed adorare un ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Francoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio».