Cultura & Società
La cucina in tempo di crisi
di Gian Marco Mazzanti
La cucina è uno dei molteplici «dati sociali», che interagendo con altri aspetti della società, non ultimo quello economico, può spiegare i mutamenti che investono un paese in un dato periodo temporale. La seconda metà degli anni ’70 rappresenta per molti versi il cambiamento sociale più importante che attraversa l’Italia: un vero e proprio punto di maturazione di un precedente processo iniziato alla fine degli anni ’50, e proseguito sino al 1965 circa, ben conosciuto con il nome di «miracolo economico».
La società si trasforma perché si modificano i rapporti generazionali: i decenni misurabili tra genitori e figli, per esempio, si trasformano in secoli. A ben pensare, soltanto qualche decennio prima, culturalmente e commercialmente, la società era una società di adulti. I vestiti e i cibi erano comuni, il fratellino portava gli abiti del maggiore, si mangiavano le stesse pietanze, alle stesse ore, alla stessa tavola, si facevano le stesse gite…
Gli anni ’80 rappresentano il punto più alto di una trasformazione sociale che ha, nell’impennata del debito pubblico italiano, la sua manifestazione più plateale.
La cucina diventa anch’essa un bene di consumo. La cucina, e quella famigliare soprattutto, subisce, secondo me, l’insulto più pericoloso: il più alto numero di pubblici esercizi con servizio di ristorazione invade la penisola, spesso proponendo piatti in «linea» con nuovi stili di vita che però, a volte, il cliente fatica assai a comprendere. E per contropartita quella cucina famigliare, che nel nostro Paese raggiungeva il punto più alto nei giorni festivi, comincia a declinare.
Il periodo del «paglia e fieno», del «salmone» e del «cocktail» di molluschi e crostacei affogati in una crema via via diversa, sono ancora impressi nella nostra memoria. L’uso di salsare impera senza un attimo di tregua: quattro formaggi, tonno, Worcester, bacon, aglio ed erbe aromatiche. Ogni piatto è «stupore e meraviglia».
La cucina famigliare, negli anni del benessere, laddove ancora praticata, sia pur tra mille difficoltà, non solo nelle (poche) case private, ma anche in trattorie «alla buona», ha rappresentato quindi a maggior ragione l’ultimo baluardo al dilagare di una moda alimentare che di fatto negava alle nostre cucine quelle diversità e quelle rigorose esecuzioni grazie alle quali erano state grandi per secoli.
Questo secolo si è per tanto chiuso all’insegna del consumismo: «usa e getta» può essere un motto della nostra epoca. Negli ultimi cinquanta anni ci siamo abituati a rinunciare a certi accessori, a certi oggetti (come la bottiglia del latte sostituita dal cartone) per poi recuperarli quando la loro assenza ha creato un vuoto che li ha resi preziosi. E così, finalmente, da qualche anno a questa parte, si assiste ad una lenta, ritrovata attenzione e riscoperta per cibi, pietanze, oggetti, più aderenti al nostro patrimonio culturale.
E così, quanti recuperi! Dalle tradizioni, dalle radici culturali, di quelle linguistiche, dei centri storici…. E la cucina, espressione della cultura di un popolo, perché avrebbe dovuto rinunciare ai suoi recuperi? Perché gli avanzi si gettano senza pietà superando il terrore ancestrale dello spreco e illudendoci di economizzare il tempo? Oppure perché mettere nella voragine del congelatore degli avanzi che diventeranno sempre più tristi man mano che si induriranno?
Il fatto di utilizzare gli avanzi, diventa un aspetto importante dei nostri giorni, anche se fino ad oggi trascurato nella follia generale. Utilizzare gli avanzi: un’espressione questa che suona male, oggi, quasi come se fosse un piegarsi alla necessità, alla povertà. Mentre un tempo, in qualsiasi casa, anche in quelle più ricche, anche questa era un’arte, ovvero un aspetto della cucina che nasceva dal rispetto del cibo proponendo idee, combinazioni stuzzicanti, piatti piacevoli. Pensate a quante specie di crocchette, di frittate, di ripieni sono nati dal desiderio di non sprecare carni, lesse o arrostite, pasta, riso, verdure, proprio tutto quello che può restare su una tavola lietamente fornita.
Siamo quindi arrivati ai giorni d’oggi con lo «spread» che sale e il rigore economico che ci attanaglia: quale momento migliore per riscoprire quella cucina famigliare che tanto aveva fatto negli anni post bellici proprio mettendo in pratica l’utilizzo degli avanzi. Una cucina semplice, che non gettava niente e dava il giusto valore al cibo.
Proviamo, quindi, anche noi a dare sfogo alla nostra creatività, evitando gli sprechi e riutilizzando gli avanzi che, se saputi interpretare, trasformano un «misero» avanzo, in un piatto da re.
E anche la cucina risente di questa austerità: il che significa cucina meno costosa, ma non per questo meno gustosa, anzi spesso più appetibile della cucina spendacciona e forse anche monotona, in molti casi, a cui ci stava avviando la mentalità consumistica.
Ci sono un’infinità di ricette che fanno parte di questo tipo di cucina che appunto cercano di uscire dal consueto, senza diventare inconsuete. E in questa ricerca di novità, senza uscire dal clima delle nostre abitudini, diventa necessario star dietro a ciò che le stagioni e le circostanze offrono al meglio, al momento giusto, in modo da consumare ciò che è più facilmente disponibile, ciò che meglio serve alle nostre esigenze biologiche, in relazione al clima e al genere di attività che svolgiamo, alla vita che si fa.
Non sono lontani i tempi in cui i frigoriferi erano un lusso e surgelati e primizie non esistevano. Il latte veniva portato ogni giorno dal lattaio, oppure lo si andava ad acquistare direttamente alla produzione. A parte poche cose a lunga conservazione (pasta, zucchero, olio, legumi secchi, ecc…), tutto il necessario per preparare da mangiare veniva acquistato giornalmente o quasi. La spesa, insomma, era un impegno pressoché quotidiano della casalinga e in negozio, anzi, in bottega, si trovavano solamente i prodotti di stagione. Sono ben lontano dal pensare con nostalgia a quei tempi, ma la stagionalità dei prodotti, che fino a pochi anni fa era un dato di fatto, oggi va nuovamente perseguita; è un peccato perdere il senso delle stagioni, ognuna caratterizzata non solamente da un certo clima, ma anche dalla comparsa nell’orto, nel frutteto, e quindi anche nei piatti, di prodotti e di sapori diversi di mese in mese.
L’attuale fase di austerity dovrebbe spingerci in particolare a ritrovare certe abitudini, certi modi di difenderci a tavola. Tra queste abitudini da riscoprire, quella della cucina di magro, credo che sia la più immediata per le sue ragioni pratiche e per i vantaggi che anche le moderne tecniche dell’alimentazione suggeriscono. I nostri predecessori sulla faccia della terra, praticavano spesso la cucina di magro, in obbedienza a precetti religiosi. Poi sono venuti storici, sociologi, dietisti, a spiegarci che quei precetti religiosi corrispondevano, più o meno inconsciamente, a precetti salutistici, al bisogno di variare l’alimentazione. Come risultato abbiamo smesso di seguire la cucina di magro. Non è un assurdo? Oggi abbiamo l’opportunità di riportare sulle nostre tavole la cucina di magro vuoi per necessità vuoi per salvarci da certi eccessi consumistici che ci avevano drogato.
Con quello che costa oggi il pesce, baccalà compreso, viene però da chiedersi quanto il consumarlo al posto della carne rappresenti una pratica penitenziale o non piuttosto un lusso. Detto che resta comunque un segno per fare memoria della Passione, bisogna anche aggiungere che c’è pesce e pesce, non solo per una scelta di moderazione che dia maggior senso al precetto quaresimale, ma e questo vale anche negli altri giorni e periodi dell’anno per rendere economicamente sostenibile, a questi lumi di luna, una pietanza salubre e generalmente leggera.
Ecco allora che ci viene in soccorso il cosiddetto «pesce dimenticato», oggetto di un progetto di promozione regionale, finanziato grazie al Fondo europeo della pesca (Fep), che ha preso il via lo scorso ottobre e da gennaio viene portato avanti anche da quindici ristoranti aderenti alla rete «Vetrina toscana a tavola», con lo scopo appunto di far crescere e rafforzare il consumo di pesci poco conosciuti e spesso sottovalutati, definiti «di minor pregio» da un certo conformismo commerciale e culinario. E invece, magari nonostante le lische, questo tipo di pesce il pregio ce l’ha eccome, perché fresco e di provenienza locale, facilmente reperibile e di qualità, ma finora spesso ributtato in mare appunto perché considerato a torto poco appetibile.
Il progetto, che si concluderà a maggio, è sostenuto da Regine e Unioncamere Toscana, coinvolge due cooperative di pescatori («Mare Nostrum» di Viareggio e «Santa Maria Assunta» di Livorno), impegna l’intera filiera produttiva perché questi tipi di pesce giungano anche nelle case e sulle tavole dei toscani, prevede anche una serie di serate a tema presso le sedi delle sezioni soci Unicoop Firenze, con la partecipazione di biologi marini, nutrizionisti e cuochi, e, a conclusione, alcune uscite di pescaturismo. Pesce sciabola, sugarello bianco, sugarello maggiore, muggine, muggine ramato, acciuga, sardina, razza di sabbia, potassolo, palamita e moscardino bianco sono le specie trattate, ma sicuramente non le sole che vale la pena riscoprire. Ricordatevele, quando andate dal pescivendolo, chiedetele e poi provatele. Le ricette le trovate anche sul sito www.ilpescedimenticato.it, assieme ad altri dettagli dell’iniziativa. Buon appetito!
Marco Lapi