Opinioni & Commenti
La Corte costituzionale conferma: ai figli un padre e una madre
Due sentenze della Corte costituzionale nel giro di pochi giorni riguardano tre coppie di lesbiche e i problemi della generazione.
Una prima sentenza del 21 ottobre 2019 si riferisce a una questione sollevata dal tribunale di Pisa sulla possibilità di poter avere nell’atto di nascita due madri di un bambino. Il bimbo è nato in Italia, ma è di nazionalità statunitense che è, poi, la nazionalità acquisita dalla madre effettiva, quella che l’ha concepito e partorito. Le due donne si erano sposate in Wisconsin dove la legge dello Stato ammette il matrimonio fra persone dello stesso sesso e, nel caso della nascita di figli, le riconosce entrambe come genitori o genitrici. In questo caso la Corte ha invece ribadito l’impossibilità, secondo la legge italiana, di iscrivere all’anagrafe un bambino come figlio di due madri.
Molto significativa è la sentenza del 23 ottobre 2019 che riguarda le vicende di due coppie di lesbiche, una di Pordenone e l’altra di Bolzano. Nel caso di Pordenone le due donne avevano contratto unione civile in Italia nel 2017 e desideravano avere figli. Una di esse era andata in Spagna e, ricorrendo a seme di donatore, era rimasta incinta di due gemelli poi partoriti in Italia. Anche la sua compagna desiderava vivere l’esperienza della maternità, ma non voleva andare all’estero e aveva fatto richiesta alla azienda sanitaria n. 5 Friuli occidentale, di essere introdotta nel percorso della procreazione artificiale. Il responsabile del servizio aveva respinto la loro richiesta sulla base dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 che riserva la fecondazione artificiale solo alle coppie eterosessuali stabili.
Ancora più complesso il caso che si è presentato al tribunale di Bolzano. Una coppia di lesbiche si era sposata in Danimarca nel 2014 e l’atto era stato successivamente trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Una di esse aveva cercato di avere un figlio in Danimarca attraverso la fecondazione artificiale, ma la procedura aveva dato luogo a gravi complicazioni esitate nella asportazione della tuba uterina destra e nella occlusione di quella sinistra. L’altra donna soffriva di una grave aritmia cardiaca per cui le era stata sconsigliata una gravidanza. Esse avevano allora proposto all’Azienda sanitaria di Bolzano di concepire un embrione con gli ovociti della partner cardiopatica e seme di donatore e di far portare avanti la gestazione dall’altra, quella con lesioni delle tube: la prima sarebbe stata la madre genetica e l’altra la madre gestazionale. Anche in questo caso l’Azienda sanitaria aveva negato l’accesso alla fecondazione artificiale in questo contesto e in questa forma in quanto proibito espressamente dalla legge 40. Il ricorso presentato dalle due coppie di Pordenone e di Bolzano faceva leva soprattutto sulla presunta illegittimità della norma che esclude le coppie omosessuali dalla fecondazione artificiale in quanto discriminatoria. Nel caso di Bolzano, inoltre, le due donne presentavano situazioni patologiche che influivano sulla loro capacità di generare. Si sarebbe configurata, quindi, una disparità di trattamento rispetto alle coppie eterosessuali con difetti della sfera generativa.
In risposta a queste tesi, la Corte ha ribadito la legittimità della esclusione delle coppie omosessuali dalla fecondazione artificiale. Non entriamo nella fine argomentazione giuridica elaborata dalla Corte, ma vorremmo fare alcune riflessioni sulle motivazioni di fondo addotte. Sappiamo tutti che la legge 40 non è una traduzione in legge della morale cattolica in tema di fecondazione artificiale, ma che, attraverso l’apporto e la mediazione di saggi parlamentari cattolici, si era cercato comunque di tenere fermi due principi che si presentano irrinunciabili anche alla luce della sola ragione: la tutela della vita e dell’integrità del concepito e il rapporto fra unione eterosessuale stabile e trasmissione della vita. La legge fu sottoposta a referendum abrogativo che fallì per una massiccia scelta astensionista dei cittadini, ma successive sentenze ne hanno fatto cadere alcuni punti non secondari, come il divieto di eterologa e di diagnosi preimpianto. Resta, comunque, in piedi il principio che lega la trasmissione della vita, anche se ottenuta con mezzi artificiali, e l’esistenza di una coppia stabile composta da un uomo e una donna. Questa è la coppia che, quando ci fossero difficoltà nel concepimento dovute a situazioni patologiche o patologie genetiche trasmissibili alla prole, può legittimamente chiedere l’aiuto della scienza per avere un figlio.
La Corte ha affrontato di petto la questione centrale: il diritto di generare e il diritto alle cure per patologie coinvolgenti la riproduzione in rapporto con la coppia omosessuale. Dal momento che è adesso possibile ricorrere a seme di donatore per una coppia eterosessuale, perché questo non è consentito a una coppia di lesbiche? Non è contro l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge come è sancita dalla Costituzione? La infecondità di una coppia di lesbiche non è forse assimilabile alla sterilità di una coppia eterosessuale?
Secondo la Corte la fecondazione artificiale non può costituire «una modalità di realizzazione del desiderio di genitorialità alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera determinazione degli interessati». La fecondazione artificiale – argomenta la Corte – è da considerarsi in senso lato una terapia della sterilità e questa comprensione terapeutica della fecondazione artificiale è confermato – a ben guardare – anche dalla apertura, originariamente non prevista dalla legge 40, all’eterologa e alla diagnosi preimpianto. L’infertilità per la coppia gay – argomenta quindi la Corte – è la norma e non la patologia per quel tipo di coppia. Per la coppia eterosessuale la mancanza di fecondità è una forma di patologia, mentre per la coppia gay è la fisiologia.
La Corte ribadisce, poi, una delle scelte di fondo della legge 40 in rapporto con «la struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla Pma (procreazione medicalmente assistita), alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre. A questo proposito una affermazione che susciterà senza dubbio reazioni furibonde è che «di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato». In questa prospettiva, una idea portante sottesa alla legge 40 e, in ultima analisi, al diritto di famiglia, è che una famiglia composta da genitori di sesso diverso, viventi e in età potenzialmente fertile, rappresenti «il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato».
La Corte non è entrata nella spinosa questione della idoneità, in linea di principio, delle coppie omosessuali ad adottare un bambino e non ha voluto escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali», ma sottolinea che «vi è una differenza essenziale» tra l’adozione e la procreazione mediante fecondazione artificiale. L’adozione, infatti, «presuppone l’esistenza in vita dell’adottando» e serve «non per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo». Al contrario, la provetta «serve a dare un figlio non ancora venuto a esistenza a una coppia», dunque non è «irragionevole che il legislatore si preoccupi» di garantire al minore «quelle che appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza».
Non sarà certo questa l’ultima parola, perché il dibattito è in corso nella società civile ed assume spesso i toni rissosi dell’ideologia, ma non possiamo non sottolineare l’importanza di questa sentenza che, proprio perché va contro corrente, è stata di fatto censurata dalla grande stampa nazionale. La Corte senza negare i diritti delle unioni omosessuali garantiti dalla legge e senza offendere le persone legate in una unione omosessuale, ha tuttavia sottolineato che si tratta di una unione interpersonale di qualità diversa rispetto alla unione matrimoniale, soprattutto in relazione con l’apertura alla vita. E non ci sembrano affermazioni di poco conto.