Lettere in redazione
La Chiesa non è un partito e i privilegi fiscali non esistono
Caro direttore, stimolato dalla lettera di Osvaldo Forzini e dalle sue considerazioni, pongo l’accento sul fatto che oltre ai vari Travaglio, Augias, ecc. anche qualche sacerdote e biblista spesso parla di «piccoli problemini di privilegi fiscali della Chiesa» ed anche che «la Chiesa si comporta da partito politico». Ora queste affermazioni che sento svolazzare oltre che fuori, anche dentro i confini della Chiesa mi fanno sorgere dei dubbi, che pongo prima a me stesso e poi a voi per arrivare ad una conoscenza più approfondita della realtà. I miei quesiti sono: 1) la Chiesa si comporta da partito oppure cerca di sviluppare la dottrina sociale a supporto del bene comune? 2) la Chiesa ha dei privilegi fiscali o utilizza come tutte le associazioni non profit dei vantaggi?
Carissimo Spennati, lei che è un lettore fedele di «Toscana Oggi» e anche un frequentatore delle nostre iniziative sa benissimo cosa si intende quando si parla di Chiesa, ma per chiarezza e a beneficio di tutti i lettori voglio ribadire che quando si parla di Chiesa si deve intendere la Comunità dei credenti, tutta intera, quindi universale (non solo italiana) e comprensiva di laici e preti. Altra cosa sono gli uomini di Chiesa o la gerarchia ecclesiastica o l’associazionismo cattolico di un Paese. La Chiesa come tale non si comporterà mai da partito politico, al di là delle simpatie politiche, anche legittime, che possono avere gli uomini di Chiesa. La Chiesa, come dice lei, svilupperà sempre «la dottrina sociale a supporto del bene comune». Che poi all’interno del mondo cattolico italiano, perché di questo si parla, ci sia chi vorrebbe o si comporta come se la Chiesa fosse un partito è un altro discorso. Però, la stessa gerarchia ecclesiastica, almeno quella italiana attraverso le parole del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha fatto capire chiaramente, anche nel recente incontro di Todi, che nemmeno in questa fase così complessa si guarda a un partito dei cattolici, bensì ad un impegno per il bene dell’Italia che coinvolga tutto il vasto mondo del laicato cattolico attorno a valori non negoziabili. Insomma, non si tratta di ricostruire la Dc, bensì di gettare le basi per un percorso che attraverso la dottrina sociale e un profondo rinnovamento culturale porti «a costruire l’anima dell’Italia prima ancora che l’Italia politica».
Alla seconda domanda credo risponda bene il nostro «primo piano» di questa settimana (alle pagine 2 e 3) dedicato appunto a «Chiesa e Ici». Un approfondimento che avevamo annunciato anche all’altro lettore, Osvaldo Forzini di Montevarchi, e che dimostra, con cifre alla mano, che le diocesi l’Ici ai Comuni la pagano eccome. Per fare un esempio, l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero di Firenze paga ogni anno mezzo milione di euro per l’85% delle unità immobiliari che amministra e che solo il 15% è esente, come previsto dalla legge, perché destinato esclusivamente allo svolgimento di attività di culto o assistenziali. Per il Convitto della Calza, che spesso viene tirato in ballo come ambiente esente dal pagamento dell’Ici, la diocesi di Firenze paga al Comune 10.515 euro. Così come la diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza paga 13.764 euro per l’ex Seminario di San Francesco a Pienza. Il resto sono bugie.
Andrea Fagioli