Opinioni & Commenti
La «bufala» del Califfato che spaventa l’Occidente
La notizia della «restaurazione del califfato» (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin – vale a dire «impegnati in uno sforzo gradito a Dio» – dell’area di confine tra Siria e Iraq, quelli che di solito i media definiscono i «jihadisti» di un autoproclamato Islamic State in Iraq and Levant (ISIL), pubblicata il 30 giugno scorso, è stata rapidamente diffusa provocando commenti di ogni genere: nella stragrande maggioranza dei casi, ohimè, del tutto fuori luogo.
L’ISIL, che a sottolineare il carattere universalistico della sua scelta ha contestualmente espunto dalla sua sigla statale le lettere I ed L che indicavano rispettivamente l’Iraq e il non troppo ben definito «Levante», è da oggi in poi nelle intenzioni dei suoi promotori e sostenitori soltanto IS, Islamic State: esso dovrebbe pertanto raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso. Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell’IS. Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la «democrazia» e gli altri psuedovalori che l’Occidente proclama. Alcuni «esperti» hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo della jihad musulmana dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino- e mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione, appunto, di al-Qaeda, e che se ne disputano accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni più coerenti e meno aleatorie.
Dal canto suo il governo ufficiale irakeno, guidato da Nuri al-Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la loro aggressione del 2003 all’Irak di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irakene sciite che in quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con trecento «consiglieri militari» statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raids contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo di al-Maliki di alcuni droni. È ovvio che lo sciita al-Maliki non sia scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo.
In altri termini, da alcuni anni la vera novità in tutte le questioni che riguardano l’Islam in genere, i gruppi radicali e le cellule terroriste in particolare, è che – soprattutto dopo le cosiddette «primavere arabe» – alcuni emiri del Golfo, tutti molto ricchi in petrodollari e tutti sunniti, hanno rinverdito con una violenza che non si vedeva forse dai tempi immediatamente successivi alla morte del Profeta (cioè da circa quattordici secoli fa) uno dei fenomeni più tipici dell’Islam: la fitna («discordia», «disordine»: guerra fratricida) tra sunniti e sciiti. Tale scelta è stata finora, forse inconsapevolmente, appoggiata da alcune potenze occidentali che pure si dicevano impegnate con decisione a combattere estremismo e terrorismo: ad esempio da Francia e Inghilterra, che con stupefacente leggerezza o con imperdonabile cinismo hanno appoggiato la sollevazione e la guerriglia contro il legittimo governo siriano di Bashar Assad; laddove sia gli Stati Uniti d’America sia la stessa Israele non hanno, nella fattispecie, dato prova né di lucidità né di decisione mentre la Turchia di Erdoğan e l’Egitto di Morsi ci stavano facendo ritenere che uno sviluppo «moderato» del «fondamentalismo» fosse possibile. Il risultato di questa nuova situazione è stato che i nostri media, che ci avevano per anni abituato ad addossare al fantasma di al-Qaeda ogni responsabilità e qualunque male, d’improvviso lo hanno fatto scomparire dalle loro cronaca quotidiana; e noi che, caduti nella trappola, ci eravamo adagiati sulla falsa convinzione di un problema risolto dopo la morte di Bin Laden, siamo stati vittime di un brusco risveglio.
Ma, in questo ingarbugliato contesto, che valore ha il califfato attribuito ad al-Baghdadi? Per rispondere, siamo obbligati a spiegar brevemente che cosa sia un califfo.
Nel 632, alla morte del Profeta che per un decennio aveva guidato gli arabi convertiti all’Islam secondo modalità di capo di un consiglio federale di tribù, in termini che ricordano molto quelli del governo di Mosè descritto nell’Esodo, i suoi compagni stabilirono di eleggere un khalîfa, cioè un successore alla guida dell’umma, la comunità musulmana. Il califfo assommava in sé i poteri esecutivi e giudiziari: non quelli legislativi, dal momento che la legge nell’Islam riposa sull’insegnamento coranico. I primi quattro califfi, detti râshidûn («ben guidati»), furono scelti per elezione dai maggiorenti della comunità: non si poté però, fino da allora (siamo nel trentennio 632-661) impedire l’insorgere della fitna (i quattro caddero tutti uccisi, l’uno dopo l’altro), culminata nella scissione guidata da Ali, cugino e genero del Profeta, che fondò appunto la shî’a, il «partito», che nella battaglia di Siffin del 658 si oppose al rivale Mu’âwiya.Nacque così lo sciismo, la «confessione» dell’Islam che si oppose a quella ortodossa, detta «sunnita» (da sunna, «regola», «condotta»).
In sintesi, mentre i sunniti (distinti sul piano dottrinale in quattro scuole giuridiche) riconoscevano come fonti canoniche della fede sia il Corano sia la somma dei detti e dei fatti del Profeta tramandati in raccolte detti hadith, gli sciiti accettarono solo il Corano cui andarono aggiungendo più tardi gli insegnamenti dei loro îmam («guide» dotate di particolare carisma), da Ali stesso in poi. Gli sciiti respinsero l’istituzione califfale (per quanto nella storia dell’Islam vi sia stato almeno un grande califfato sciita, quello dei fatimidi nell’Egitto tra XI e XII secolo); da loro si distaccarono però quasi subito i kharigiti, estremamente rigoristi, i quali pur ammettendo il califfato non accettavano la regola sunnita secondo al quale il califfo doveva obbligatoriamente appartenere alla tribù del Profeta, vale a dire ai Quraysh, ma pretendevano che a tale ufficio dovesse ascendere quello che la comunità ritenesse a maggioranza il migliore, senza distinzione di tribù o di razza o di condizione. Sunniti, sciiti e kharigiti costituiscono ancor oggi le tre confessioni fondamentali dell’Islam: ma, su un miliardo e mezzo circa di fedeli, i primi sono la netta maggioranza, mentre i secondi s’identificano principalmente con gli iraniani; arabi sciiti sono però presenti in Siria, Libano, Iraq e nell’area del Golfo.
Nell’Islam sunnita si affermò invece il principio del califfato ereditario all’interno dei due gruppi che costituivano la tribù curaiscita del Profeta, vale a dire gli hashemiti e gli shamshiti: si ebbero tra 661 e 1258 due distinte dinastie califfali, gli umayyadi (661-750) che scelsero come loro capitale Damasco e trasformarono la compagine musulmana in un impero sul modello bizantino, e gli abbasidi che spostarono la capitale a Baghdad e assunsero sistemi di governo e costumi ispirati alla tradizione persiana; un gruppo di dissidenti che preferirono sottrarsi al nascente potere abbaside emigrarono ad ovest attraverso l’Africa e approdarono insieme con alcune tribù berbere nella penisola iberica, dove fondarono un califfato di tipo neo-umayyade con capitale Córdoba, tra X e XI secolo. I califfi di Baghdad regnarono però, a partire dall’XI secolo, condizionati dalla tutela del “sultano” (una parola araba che indica genericamente il potere e i suoi detentori) di un’etnìa uralo-altaica convertita da poco all’Islam e proveniente dall’Asia centrale, i turchi selgiuchidi.
Tra XI e XII secolo scomparivano però sia il califfato cordobano, sostituito da una frammentazione di emirati iberici l’ultimo dei quali sarebbe quello di Granada conquistato dai castigliano-aragonesi nel 1492, sia quello sciita egiziano eliminato per conto del sultano selgiuchide da un generale curdo che sarebbe in seguito divenuto a sua volta sultano (cioè governatore di fatto indipendente) di Siria e di Egitto, Yussuf ibn-Ayyub Salah ed-Din (il «Saladino» della nostra tradizione medievale), che nel 1187 avrebbe recuperato all’Islam Gerusalemme cacciandone i re crociati. L’ultimo califfo abbaside fu soppresso nel 1258 per ordine di Hulagu Khan, nipote di Genghiz Khan e capo dei mongoli che avevano conquistato Baghdad.
Nella storia dell’Islam si registrano molti califfati, soprattutto nell’Africa nordoccidentale: in genere, quando una comunità concorde al suo interno intendeva proclamare un califfo, se aderiva alla «sunna» le bastava individuare qualcuno che da parte di madre (la tradizione musulmana è, come l’ebraica, matrilineare) avesse o comunque potesse vantare qualche antenato curaiscita, cosa non difficile. Ovviamente, si trattava di autorità califfali che venivano accettate solo dalla comunità che le aveva proposte, per quanto fossero autoreferenzialmente dotate di portata universale.
Un caso a parte è quello del califfato rivendicato fino dal 1517 da Selim I, sultano ottomano di Istanbul. Anche in quel caso si tentò di legittimare una lontana discendenza materna degli Ottomani dai curaisciti: ma, soprattutto, i giuristi al servizio del sultano – non ostacolati da nessuno nel mondo sunnita del tempo: anzi, la loro scelta fu accettata nella stessa India moghul – argomentarono che dopo le tormentate vicende del califfato e la sua vacanza dal 1258 fosse necessario riportare ordine all’interno della compagine dell’umma.
E qui si apre l’ultimo capitolo importante (altri ve ne sarebbero: ma secondari) delle vicende istituzionali del califfato prima delle novità odierne. Il 2 novembre del 1922, dopo l’armistizio con la Grecia che aveva concluso la guerra greco-turca, il leader della rivoluzione nazionale Musfafa Kemal annunziava formalmente il popolo turco intendeva riassumere direttamente la sovranità della quale la dinastia ottomana lo aveva privata e di abolire la funzione sultaniale, mentre il califfato – da allora in poi separato da essa – sarebbe stato comunque affidato a un membro della vecchia famiglia regnante.
Quando il detronizzato sultano Mehmet VI lasciò il 17 successivo il paese a bordo della corazzata britannica Malaya, venne proclamata la repubblica e il nuovo parlamento elesse califfo Abdül Mecit, figlio di un precedente sultano, Abdül Aziz, ch’era stato deposto nel 1876. Il 29 di quello stesso mese il califfo designato accettò formalmente la carica recandosi nella moschea stambuliota di al-Fatih attorniato da un’immensa e tripudiante folla. Da quel giorno, tuttavia, Istanbul cessò di essere a tutti gli effetti la capitale dell’impero che non esisteva più per divenire il capoluogo di un vilayet, un governatorato.
Pochi mesi più tardi, in seguito alle elezioni tenutesi tra il giugno e l’agosto del 1923, Kemal divenne presidente dell’istituenda repubblica per la quale si scelse il 13 ottobre una nuova capitale nella città di Ankara. La vita politica s’incentrava ormai sul regime monopartitico Partito Popolare Repubblicano il programma del quale prevedeva la laicizzazione, l’eliminazione del diritto religioso islamico dalla vita amministrativa e dal sistema scolastico e un riassetto economico fondato sulle partecipazioni statali alle imprese. I modelli assunti furono il Codice civile svizzero e quello penale italiano. La repubblica fu proclamata ufficialmente il 29 ottobre, sulla base della costituzione già varata fino dal 20 gennaio 1921 al primo articolo della quale fu aggiunta una sola, semplice frase: «La forma di governo dello stato turco è la repubblica».
Mehmet VI, dopo aver sostato a Malta e in Arabia, era partito frattanto da Alessandria d’Egitto sulla nave italiana Esperia e approdato a Genova il 23 maggio del ’23. L’accordo con il suo ospite-semicarceriere, il governo di Sua Maestà Britannica, avrebbe previsto come definitiva mèta del suo esilio la svizzera Losanna; ma l’ex-sovrano preferì fermarsi a Sanremo, dove – discretamente ma strettamente sorvegliato dalla polizia italiana – affittò la villa ch’era già stata occupata da Alfred Nobel e non depose le speranze di rientrare nel suo paese e di recuperare la corona, tessendo con tale intento anche qualche invero poco abile trama.
Frattanto il governo repubblicano presieduto da quel Mustafa Kemal che ormai era Gazi, «guerriero vittorioso nel nome di Dio», e che concentrava su di sé la somma del potere, si era posto un altro obiettivo: l’abolizione del califfato. Su tale provvedimento non esisteva affatto unanimità: anzi, forti e autorevoli erano le voci che si levavano a difendere un’istituzione che conferiva alla Turchia uno speciale prestigio in tutto il mondo musulmano. Anche alcuni esponenti illustri di vari ambienti islamici estranei alla Turchia, ad esempio l’Agha Khan, fecero sentire la loro voce intervenendo presso il governo repubblicano. Ma questa era proprio l’occasione che Kemal attendeva per denunziare le ingerenze e le pressioni straniere che minacciavano la libertà della nazione proprio nel momento nella quale essa si andava fondando. Al principio del febbraio del ’24 il Gazi fece in modo che gli alti comandi dell’esercito si esprimessero nel senso che egli incrollabilmente pretendeva. Il 3 marzo, i deputati della Grande Assemblea della repubblica votarono difatti tre leggi: la prima aboliva il ministero degli affari religiosi e delle pie fondazioni, sopprimendo anche la funzione del capo del sistema teologico-giuridico che regolava il culto e i suoi rapporti con la società, lo sheikh ul-Islam, e aggiudicando al governo la funzione di amministrare istituzioni e beni che fino ad allora alle abolite funzioni erano stati subordinati; la seconda unificava i sistemi scolastico e giudiziario sopprimendo scuole e istituzioni religiose e trasferendone funzioni e prerogative al ministero dell’educazione; la terza proclamava l’abolizione del califfato, la decadenza del califfo e il bando dal territorio della repubblica di tutti gli appartenenti alla dinastia ottomana. Successivamente furono aboliti i tribunali coranici e le loro funzioni trasmesse a quelli laici. Si attuava in tal modo il programma che Mustafa Kemal aveva annunziato, ricondurre alla sua alta funzione la fede musulmana, «liberandola dalla condizione di strumento politico alla quale da secoli era assuefatta». Il Gazi, ben sapendo quanto facile – e non ingiustificato – fosse l’accusarlo d’irreligiosità, faceva tuttavia dichiarare ufficialmente dall’articolo 2 della nuova costituzione del paese che «la religione dello stato turco è l’Islam». Egli dichiarava di non intendere affatto distruggere l’Islam, bensì di voler soltanto separare la fede musulmana dallo stato e assegnarla alla sfera privata della vita dei cittadini.
La scelta del regime kemalista fu salutata in Occidente con entusiasmo dagli ambienti laicisti e progressisti, che in parte istituirono esplicitamente o no un confronto per la verità indebito con situazioni e istituzioni ecclesiali cristiane dei loro paesi, in parte sottolinearono come con l’abolizione del califfato la Turchia avesse adottato i princìpi e gli ideali della «civiltà occidentale» e avesse detto «definitivamente addio all’Oriente», distruggendo qualunque prospettiva panislamica e incoraggiando pertanto tutti i musulmani a modernizzarsi. Nel mondo musulmano furono in molti a protestare: chi aveva concesso al parlamento repubblicano turco l’autorità prima di eleggere il successore del profeta a nome di tutti i credenti, quindi di abolirne l’ufficio? Il governo britannico invece, realisticamente, riuscì a far proclamare nuovo califfo il sovrano hashemita dello Hijaz, Hussein, che riteneva suo sicuro alleato. In seguito avrebbe «cambiato cavallo», lasciando da parte Hussein per scegliere i rigoristi wahabiti del sud dell’Arabia, i sauditi. Il petrolio avrebbe fatto di quella tribù chiusa e arretrata, ma arrendevole in fatto di royalties che Sua Maestà Britannica le proponeva, una delle «razze padrone» del mondo di oggi. Di tutto ciò, va ringraziata la lungimiranza dei vincitori della prima guerra mondiale.
L’ultimo califfo, Abdül Mecit cugino del deposto sultano, aveva raggiunto a sua volta l’Europa per stabilirsi sulla Costa Azzurra, non lontano dal parente ospite di Sanremo: ma i due si detestavano.
Ed eccoci all’avventura di al-Baghdadi. Sarà il califfo riconosciuto da tutti i sunniti soggetti all’autorità de facto dello stato-guerrigliero che controlla una parte del nord della Siria e dell’est dell’Irak. In teoria e sulla base della legittimazione formulata dai suoi giuristi, certo, egli è il successore e il vicario del Profeta ed estende l’autorità su tutti i sunniti del mondo, molte centinaia di milioni dei fedeli. L’accetteranno, dal Maghreb alla Malaysia, anzi oltre dal momento che ormai il dar al-Islam è «spalmato» su tutto il mondo in seguito all’immigrazione e alle conversioni? Questo capo guerrigliero ha fatto qualcosa che nemmeno i ricchi e potenti emiri dei paesi arabi, padroni di mari di petrolio e grandi finanzieri mondiali – nonché, in più casi, effettivamente dotati di una plausibile discendenza curaiscita – hanno mai osato fare. Non è escluso che qualche gruppo specie africano legato alla costellazione guerrigliero-terroristica che si continua a chiamare con il fortunato ma astratto nome di al-Qaeda dichiari di accettarne l’autorità: e allora? Ve li figurate non dico il re dell’Arabia saudita o l’emiro del Qatar, ma anche il mio amico Ezzeddin imam di Firenze, che si danno un bel venerdì a proclamar di accettare l’autorità di al-Baghdadi? Si reciterà in nome suo, in qualche moschea asiatica o africana o magari europea, americana o australiana, la salât del venerdì? Lo stato che egli guida con un’autorità che in teoria non si è più riscontrata nel mondo da quando la repubblica turca ha unilateralmente abolito il califfato ottomano sarà riconosciuto almeno dalla Lega Araba e dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, conditio sine qua non perché il nuovo califfo consegua un effettivo potere riconosciuto come tale in sede di diritto internazionale? Insomma, sarebbe come se il parlamento del Grand Feenwick (ve lo ricordate, il delizioso granducato mitteleuropeo del film Il ruggito del topo, quello in cui l’immortale Peter Sellers ci regala la gioia di battere gli americani?) dichiarasse di volermi assegnare la corona di un risorto Sacro Romano Impero. Via, non scherziamo…
Eppure gli «esperti internazionali» – qualcuno strapagato – si stanno sbracciando a dichiarare da tutti i possibili balconi mediatici che con il nuovo califfato siamo entrati in una nuova era nella storia del mondo islamico, e quindi della nostra società tout court visto il ruolo che esso vi gioca. La lettura anche di un semplice «bignamino» di quelli sui quali una volta gli studenti meno secchioni preparavano gli esami sarebbe bastata a impedire la divulgazione di tante e tali pompose sciocchezze.
Ma intanto è scattato l’allarme internazionale, ovviamente sostenuto dal Pentagono, contro il pericolo «di attentati, da parte di gruppi irakeni, siriani o yemeniti» (per fortuna, non risulta che fino a questo momento i fondamentalisti di Pontassieve si siano mossi). Da subito, per esempio, sono scattati nuovi e più stretti controlli negli aeroporti. E nuove prospettive di business per le solite multinazionali, dal momento che sappiamo benissimo quanto costosi siano tali giochetti e quanto ampie le prospettive di lucro per chi riesca a farsi assegnare una fettina di quella torta. Con una sola piccola pausa nella gran giostra dei profitti travestiti da sicurezza. Forse i precari e i pensionati italiani conosceranno un parziale sollievo dal salasso cui vengono sottoposti, in quanto è probabile che l’obbligo di acquisto da parte nostra dei celebri aerei-bufala F 35 slitti di qualche tempo: il Pentagono ne ha disposto una revisione, dal momento che uno di essi è bruciato in volo nel cielo della Florida. Questo, forse, è l’aspetto più interessante – e più serio – dell’ennesima buffonata cui ci tocca di assistere.