(Michele Luppi, inviato di Sir Europa a Pristina) – Il 17 febbraio 2008 le autorità albanesi proclamavano unilateralmente l’indipendenza del Kosovo riconosciuta fino ad oggi da 54 Paesi, tra cui gli Usa e quasi tutti i Paesi dell’Ue ad eccezione di Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro. A distanza di un anno, però, il Kosovo non è ancora riuscito ad imboccare la via dello sviluppo rischiando di rimanere intrappolato in problemi divenuti ormai cronici. In questo anno dice a SirEuropa, Lorena Martignoni, responsabile locale di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli – Associazioni cristiane lavoratori italiani) abbiamo assistito ad un grande lavoro diplomatico ma poca attenzione è stata data ai problemi sociali. L’alto flusso migratorio è la dimostrazione del perdurare di questa situazione di crisi. Il Kosovo è una delle regioni più giovani d’Europa dove un terzo della popolazione ha meno di 14 anni. Ma in un Paese che non produce, dove la maggior parte delle fabbriche e delle miniere sono chiuse e la disoccupazione oscilla tra il 40 e il 60%, per molti l’emigrazione è una scelta obbligata. E’ grazie alle rimesse frutto del loro lavoro che molte famiglie riescono a sopravvivere, senza dimenticare il contributo di associazioni e locali ed internazionali come la Caritas Kosovo che ha da pochi mesi avviato una mensa dei poveri nel cuore di Pristina. Qui i giovani continua la responsabile di Ipsia Kosovo non hanno grandi speranze, per questo continuano ad emigrare quasi sempre raggiungendo parenti che già sono all’estero. Sono in molti a frequentare le tante università sparse nel Paese ma anche per loro dopo la laurea è difficile trovare lavoro. Non si può pensare di rimettere in moto l’economia, dando impulso allo sviluppo se non partendo da questioni come lavoro, privatizzazioni delle vecchie imprese statali, il rilancio dell’agricoltura, la costruzione di impianti e infrastrutture. Questioni fondamentali su cui tanto si è detto ma senza interventi decisivi. La mancanza di lavoro è oggi la principale emergenza del Paese. E’ per questo che, anche nella popolazione serba, i giovani tendono ad emigrare a Belgrado e molti dei profughi scappati nel dopoguerra hanno difficoltà a rientrare perché non vedono un futuro per loro in Kosovo. Questo conclude Martignoni – finisce per avere ricadute anche sul cammino di riconciliazione, perché, in una popolazione segnata dalle difficoltà e dalla sofferenza, il fuoco della rabbia può, più facilmente, covare sotto la cenere. Non possiamo tornare al passato è l’appello di mons. Dode Gjergji, Amministratore apostolico di Pristina – dobbiamo lavorare insieme, serbi e albanesi, per il futuro del Kosovo. Non c’è alternativa all’ingresso comune nell’Ue.Sir