Cultura & Società
Juri Chechi: così mi hanno scippato l’oro olimpico
di Damiano Fedeli
Gli inglesi e gli americani ce l’hanno un po’ per vizio. Lo chiamano «what if…». Ovvero: che cosa sarebbe successo se Uno storico americano, Robert Cowley, qualche anno fa ci aveva anche scritto un libro: «La storia fatta con i se», tentando di immaginare cosa sarebbe successo se i greci avessero perso contro i persiani a Salamina o se Napoleone avesse trionfato a Waterloo.
Un po’ lo stesso è successo a Juri Chechi, il campione pratese, il ginnasta «signore degli anelli»: se alle olimpiadi del 2004 ci fosse stata una giuria imparziale, il vincitore della medaglia d’oro sarebbe stato lui. E non lo dice il popolo del bar sport o del circolo sportivo, l’Etruria Prato, dove è cresciuto. Lo dice la stessa Federazione internazionale di atletica, e Chechi lo ha rivelato al Ridotto del teatro Metastasio di Prato ai lettori del nostro settimanale, raccontandosi loro in un dialogo con il giornalista Piero Ceccatelli in occasione dei «Thè di Toscana Oggi».
Finale olimpica di Atene, 22 agosto 2004: Chechi è tornato a gareggiare dopo aver annunciato nel ’97 il ritiro e dopo il grave infortunio che nel 2000 lo aveva tenuto lontano da Sydney. La giuria, contestatissima, assegna l’oro al padrone di casa, il greco Dimosthenis Tampakos, nonostante visibili imperfezioni nel suo esercizio. Come secondo viene premiato il bulgaro Jovtchev, mentre a Chechi va solo il bronzo. Delusione, ovviamente. «Fu qualcosa di profondamente ingiusto, anche se gli atleti devono saper accettare il verdetto della giuria che è quello e non si può cambiare. Per me Atene era già comunque stato un momento importante proprio per la decisione di tornare a gareggiare», racconta adesso. La Federazione internazionale, però, decise di far rivedere i filmati a otto nuovi giurati indipendenti. «Ovviamente non c’era nessuna intenzione né possibilità di ricorso, solo la voglia di far ristabilire una giustizia sportiva», spiega Chechi. Ebbene, dal nuovo, e virtuale, verdetto risultò che Chechi avrebbe dovuto vincere l’oro, il bulgaro sarebbe sempre stato secondo, mentre il bronzo sarebbe andato al giapponese Hiroyuki Tomita. Il greco Tampakos, il vincitore vero, in questa classifica sarebbe arrivato ottavo. Ovvero ultimo, per dirla tutta.
Si racconta a tutto campo ai nostri lettori, Juri, anzi Juri Dimitri, per la precisione i suoi figli di 5 e 4 anni si chiamano Dimitri e Anastasia, suo padre Leo, come Tolstoj, la sorella Tanja («i nomi russi vanno forte in casa nostra», scherza). E confessa che, anche se le sirene televisive continuano a ricercarlo, dall’«Isola dei famosi» a «Ballando con le stelle», «Io ho detto sempre di no. Nonostante mi abbiano fatto proposte economiche da calciatore». Ti aspetteresti di sentire da lui dire che lo sport è tutta la sua vita e di vederlo finire dirigente di qualche società o federazione. Invece confessa candidamente che «con lo sport ho chiuso. La mia è stata un’avventura meravigliosa: attraverso lo sport ho coronato sogni che avevo fin da bambino, ma la vita va avanti e ci sono nuovi obiettivi. Sarò lontano dallo sport operativo, anche se sempre vicino al mondo sportivo che è sempre un’occasione per stare meglio». Ad esempio è commentatore tv o organizzatore di stage di ginnastica per bambini («anche se, mi raccomando, non fateli mai cominciare troppo presto nello sport: è bene che fino a 7-8 anni giochino e si divertano»). In generale, i suoi progetti ora sono altri. «Sto per aprire un agriturismo nelle Marche. Credo che passerò sei mesi lì e sei a Prato».
Già, Prato, la sua Prato. Qualche mese fa fece scalpore in città un suo appello contro l’eccessivo degrado del centro storico, dove lui stesso abita, vicinissimo al Duomo. «Non volevo creare difficoltà a nessuno, il mio era uno sfogo. Sono arrabbiato nel vedere Prato e nel far fatica a riconoscerla: degrado, illegalità. Qualcosa di inaccettabile per una città di cultura e di grandi tradizioni. Dal centro saremo costretti a spostarci, ma me ne dispiace». Eppure negli anni Novanta, con il Pds a Prato, Chechi era stato anche consigliere comunale: «Un’esperienza cui avrei voluto dedicarmi con più tempo e impegno», confessa aggiungendo che adesso per lui tentare di decifrare il Pd è «difficile come preparare un’Olimpiade. È qualcosa che non mi è chiaro, faccio fatica a capirlo anche se penso che un partito forte di centro sinistra sia importante per l’alternanza democratica».
Chechi racconta anche del suo rapporto con la fede, qualcosa di nuovo per lui. «Sono originario di una famiglia non credente», racconta. «Ma per me è stato importante l’incontro con don Carlo Mazza, prima assistente spirituale della squadra olimpica, ora vescovo di Fidenza. Io sono cresciuto in un collegio di sacerdoti a Varese e devo dire che non era stata per niente una bella esperienza. Con don Mazza, dopo molti anni, ho riscoperto in un sacerdote alcune cose importanti, che mi erano mancate. Un confronto aperto sui temi su cui tutti cercano risposte».
Nel 2000 era davanti a Papa Wojtyla, per il Giubileo degli sportivi. «Ci presentava a lui a uno a uno Candido Cannavò, allora direttore della Gazzetta. Arrivò il mio turno. Juri, sì, ti conosco, mi fece il Papa. E io, che proprio non riesco a dare del lei a nessuno: Anch’io ti conosco!. Ricordo l’attimo di silenzio e lo sguardo di fuoco di Cannavò su di me. Il Papa, invece, sorrise. E la tensione si sciolse in un istante».