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«Italicum», un corto circuito per la legge elettorale
«C’è una sinistra cui piace perdere ed una che vuole vincere: io sono la seconda», ha detto in sostanza Matteo Renzi, a commento delle elezioni in Gran Bretagna sfociate nel trionfo dei Conservatori. Qualche ragione pare averla, se non altro perché l’Italicum è ormai legge dello Stato. Il presidente del Consiglio ha ottenuto, in questo frangente, di stabilire il principio per cui il capo dell’esecutivo, che è segretario del principale partito nazionale, può farsi promotore di un provvedimento di esclusiva – se non altro per ragioni di opportunità – competenza parlamentare. Insomma, un bel conflitto di interessi: uno dei tre poteri dello Stato che travalica le proprie competenze per andare ad invadere quelle del secondo, facendogli scrivere sotto dettatura le regole da cui scaturiranno sia il prossimo Parlamento, sia l’eventuale successore di Renzi. Ripetiamolo: un corto circuito.
Nel frattempo Renzi incassa anche l’ennesimo fallimento dell’opposizione interna. Questa ha ragione nel dire che lo spirito con cui è nato il Pd era altro rispetto alla prassi invalsa. Ma il problema è proprio questo: il Pd non è nato su un patto di autentica natura politica e non si è mai liberato dall’equivoco dell’essere un cartello elettorale piuttosto che un partito. Quanto sta avvenendo ne è la naturale conseguenza .
La nuova legge elettorale rappresenta il trionfo del premier. Ma tutti i trionfi portano con sé i germi di nuove stagioni politiche. Se qualcuno cedesse all’umanissima tentazione di credersi invincibile i guai potrebbero iniziare presto, anche in caso di successo alle prossime regionali. Non c’è stato miglior sprone per l’approvazione dell’Italicum della minaccia dello scioglimento delle Camere. Oggi, però, tutti sanno che quel pericolo è ancora più concreto, proprio grazie all’onnipotenza del Presidente del Consiglio. E tutto può rimettersi in movimento.
Non è un caso che l’addio di Civati non sia stato accolto con quella supponente alzata di spalle con cui Renzi, chiedendosi chi fosse Stefano Fassina, reagì alle prime timide critiche dell’allora viceministro dell’economia. Si teme l’effetto imitazione, anche da parte di un elettorato sempre più perplesso.
Le regionali si avvicinano e lo stesso centrodestra pare rimettersi in moto. Al momento è confuso e diviso. Paga il fatto che Berlusconi non abbia mai permesso che si sviluppasse una cultura moderata. Risultato: senza di lui ci sono le macerie, e questo gli permette di riprendere l’iniziativa. Nel suo partito, che presto cambierà nome, giurano che sarà in grado di riportare molta gente a votare. Se fosse vero, gli equilibri potrebbero uscirne stravolti.
Il problema del centrodestra – la scarsa progettualità – è anche quello del centrosinistra. Le speranze di successo elettorale si legano al lieve miglioramento dell’economia, grazie alla diminuzione del prezzo del petrolio. Allora attenti: in America si stanno accorgendo che la ripresa è più debole di quanto non si pensasse. Questo comunque ci permette di tornare alla sconfitta dei laburisti britannici. Pagano il fatto che Tony Blair – anche lui – abbia fatto terra bruciata tra i cervelli della sinistra. La crisi del partito durerà fino al momento in cui saranno in grado di trovare una ricetta per uscire dalla crisi. Nel frattempo, magari in attesa che i cattolici si decidano ad accogliere l’ultimo appello di Papa Francesco ad occuparsi sul serio di politica, continueremo ad avere una sinistra priva di idee che stancamente vince in Italia grazie all’Italicum, ed una destra altrettanto scarsa che trionfa in Gran Bretagna grazie all’uninominale. «È il momento di rimediare a questo sistema con la rappresentanza proporzionale», chiede a gran voce l’Economist a commento della tornata elettorale. Forse avremmo dovuto pensarci prima, ma da una settimana circa non siamo più in tempo.