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Israele, quelle colonie sono come cemento sulla bara della pace
La decisione del premier israeliano Benjamin Netanyahu è stata dettata dai due pessimi consiglieri come la vendetta e l’ambizione. La vendetta per l’ammissione della Palestina all’Onu. L’ambizione di rimanere al potere alle prossime elezioni.
Quando, chissà in quale giorno e semmai accadrà, si deciderà di dare una patria ai palestinesi, ci sarà ancora in Palestina una terra da dare ai palestinesi? Per forza d’inerzia al capezzale di un processo di pace moribondo la diplomazia continua ancora a parlare di una pace che dovrebbe basarsi sul principio dei «due popoli, due stati»: uno per gli israeliani e uno per i palestinesi. Il futuro, ma sarebbe forse meglio dire ormai fantomatico, stato che dovrebbe andare ai palestinesi sarebbe la Giordania. La Giordania ha le dimensioni di una delle più piccole regioni italiane. Grosso modo è grande come la Liguria. Dentro ci stanno ancora quasi tre milioni di Palestinesi. Ma col passare del tempo nella Cisgiordania ci si sono infilati ormai anche 650 mila coloni israeliani, di cui trecentoventimila nella stessa Gerusalemme, che hanno comprato o più sbrigativamente espropriato la terra agli arabi (per il 40% appartenente a privati secondo l’organizzazione ebraica «Pace adesso»).
La colonizzazione ebraica è una sorda invasione a rate che cresce anziché diminuire nel tempo e diventa anzi più arrogante a mano a mano che si comincia a parlare di pace. I coloni ebrei in Cisgiordania erano 3.200 nel 1976 quando l’Olp ancora non riconosceva Israele. Erano saliti a 100 mila nel 1993 al tempo degli accordi di Oslo. Nel 2007 al momento della fine dell’era di Ariel Sharon erano balzati a 268 mila per poi raddoppiare quasi fino ad oggi. Nonostante gli ammiccamenti e le mezze promesse non sappiamo con certezza se queste colonie saranno mai cancellate. Non poche prese di posizione sembrano indicare il contrario. Il primo ministro Golda Meier disse nel settembre 1972: «Tutti i punti di popolamento sono stabiliti nelle zone che il governo vorrebbe vedere sotto sovranità israeliana». Il ministro della Difesa Moshè Dayan aggiunse nel marzo dell’anno dopo: «I punti su cui noi ci siamo insediati non saranno restituiti agli arabi».
Ma di là delle parole sono il tipo e la qualità della colonizzazione ebraica che rendono quasi impensabile un ritiro domani dei coloni israeliana dalla Cisgiordania. I coloni sono non solo fortemente interessati, ma anche emotivamente motivati nel considerare il loro coltivare quelle terre una missione oltre che una mansione. La maggior parte dei coloni sono degli ultraortodossi che credono nel «Grande Israele» e un terzo di loro si dedica allo studio della Torah. Fra loro c’è non a caso Avigdor Lieberman, il più estremista fra i ministri degli esteri che finora Israele abbia avuto.
In Cisgiordania i coloni non vedono il presente degli arabi ma il passato biblico di Israele. Da Gerico a Betlemmme a Hebron scorgono ancora «la via dei patriarchi» e, secondo la tradizione, a Hebron ci sono le tombe di Abramo, di Isacco, di Sara e di Rebecca oltre che il luogo in cui fu unto re David, anche se lo scrittore israeliano Amos Oz avverte che «il culto delle pietre è estraneo al giudaismo». La colonizzazione appare a molti oggi la continuazione più autentica del sionismo. Spesso è finanziata dalla stessa Agenzia Ebraica che a suo tempo finanziò l’insediamento in Israele. Soprattutto i coloni illegali si muovono spesso con le case prefabbricate, le case mobili che ricordano le carovane del periodo epico della colonizzazione. Il loro linguaggio fortemente simbolico sfrutta la emotività più istintiva degli ebrei.
I coloni soprattutto illegali quando qualche volta vengono trasferiti dal governo israeliano si autodefiniscono «deportati» come se tornassero a Auschwitz.
In genere si pensa e qualche volta si dice che in caso di accordo di pace i coloni israeliani potrebbero essere allontanati dalla Cisgiordania. Ma finora ogni tentativo di smantellare una colonia ebraica anche piccola ha provocato scene da guerra civile. Otto anni fa, quando in seguito al ritiro israeliano da Gaza, Sharon decise di trasferire i quattromila coloni ebraici insediati nella zona, i coloni misero chiodi a tre punte davanti alle case, una donna si diede fuoco, e un colono per rappresaglia uccise quattro palestinesi. I rabbini ultraortodossi ingiungono ai soldati di non obbedire nel caso che sia dato loro l’ordine di sgomberare una colonia. E non pochi soldati li ascoltano.
Nell’agosto 2007 i soldati del battaglione Duhifat si rifiutarono di evacuare i coloni di una colonia illegale a Hebron. Il 22 ottobre di tre anni fa settecentocinquanta soldati del battaglione Shinshon appesero davanti alla loro caserma a Gerusalemme Est uno striscione in cui proclamavano che si sarebbero rifiutati di essere usati nel trasferimento di coloni.
Rimane come ultimo sotterfugio all’ottimismo l’ipotesi di lasciare le colonie ebraiche là dove sono e di compensare i palestinesi con altri fazzoletti di terra trovati qua e là. Ma anche il resto della Palestina con le colonie ebraiche fra i piedi non è uno stato. È solo una regione in briciole passata attraverso la grattugia delle mille frammentazioni israeliane per separare con il labirinto di una frontiera che non finisce mai coloni e palestinesi. Le colonie e le strade riservate ai coloni non fanno più della Cisgiordania un paese, ma una rete di cantoni separati dove i palestinesi, chiusi in celle di qualche chilometro, quadrato non possono nemmeno comunicare fra loro. La Cisgiordania è oggi una esposizione universale a cielo aperto di tutto ciò che divide: terrapieni, blocchi di cemento, reticolati di ferro. Oltre cinquecento posti di blocco fissi o mobili, settantacinque chilometri di barriere lungo le vie principali, ottantatre porte di ferro lungo il grande muro di separazione tolgono ai tre milioni di palestinesi la libertà primordiale di andare e venire, di andare al lavoro o di recarsi in ospedale senza mettersi in coda, di muoversi da una città ad un’altra anche se dista dieci chilometri.
Gli abitanti dei territori non possono recarsi a Gerusalemme e a Tel Aviv e pacifisti israeliani come Ilana Hammermann devono dare un passaggio in macchina ai ragazzini palestinesi, far loro passare il blocco con una targa israeliane e portarli a Tel Aviv a vedere il mare che non hanno mai visto. È stata la stessa Banca Mondiale a dichiarare che sono tutti questi ostacoli e tutte queste interdizioni a impedire l’uscita della povertà e la diminuzione della disoccupazione fra i palestinesi e a far lentamente avvizzire luoghi come Naplouse, Betlemme, Hebron, Gerico fra cui ci sono nomi che erano già detti all’alba della storia.
Per tutti questi motivi è ormai ovvio che costruire colonie in Cisgiordania significa mettere cemento sulla bara alla pace. Anche se domani per caso si tornerà a promettere la terra agli arabi, gli arabi sanno che la loro terra promessa non c’è più. È quindi molto grave che il premier Benyamin Netanyahu abbia deciso di lasciare costruire un’altra megacolonia di 3 mila abitanti proprio fra Gerusalemme Est e la colonia già esistente di Maalè Adomin con i suoi 35 mila israeliani, per fare della città santa alle tre religioni una grande area metropolitana ebraica.
Netanyahu è andato avanti nonostante le riserve degli Stati Uniti, le proteste dirette della Merkel, la convocazione degli ambasciatori israeliani da parte dei ministri degli esteri della Francia, della Gran Bretagna, dell’Italia, della Spagna, della Svezia e della Danimarca. La scelta di Netanyahu è stata dettata dai due pessimi consiglieri come la vendetta e l’ambizione. La vendetta per l’ammissione della Palestina all’Onu. L’ambizione di rimanere al potere visto che alle primarie per le elezioni che si terranno il prossimo 23 gennaio hanno trionfato i contrari allo stato palestinese e i fautori ad oltranza della colonizzazione compreso quel Moshe Feiglin che da anni sostiene apertamente la colonizzazione di tutta la Cisgiordania occupata.
Anche in Israele insomma il populismo ha fatto scegliere ciò che si pensa faccia vincere le elezioni e non ciò che veramente è il bene futuro del paese.