Mondo
Israele e la credibilità della comunità internazionale
Avallare la condotta israeliana confezionerebbe un ennesimo precedente per chiunque altro fosse abilitato a evocare scontri di civiltà
Non c’è più dubbio: gli attacchi all’Unifil da parte dell’Idf sono deliberati e intenzionali. Oltre alle dinamiche, lo conferma la richiesta di Netanyahu ai caschi blu di abbandonare l’area.
La forza di interposizione lungo la Linea Blu e con competenza sino al fiume Tamil (esattamente la meta a cui mira l’Idf) risulta d’intralcio all’invasione. Non bastando la sua inerzia, ora le si chiede di togliere le tende. Scopo dell’intimidazione non è soltanto rimuovere testimoni dal campo. L’obiettivo di Tel Aviv è lo sradicamento del partito-milizia di Hezbollah (organizzazione terroristica per Israele, Usa, Canada, Egitto e Paesi Bassi), nato nel 1982 a seguito della guerra di Israele nella Terra dei Cedri. O meglio, lo scopo è realizzare il regime change suggerito dal messaggio di Netanyahu al popolo libanese, dietro la minaccia di ridurre il Paese a un cumulo di macerie.
Ora anche nel vocabolario delle cancellerie “amiche” – specialmente a Roma, dato il bersagliamento del cospicuo contingente italiano – compare la formula “crimine di guerra”.
Quasi che le mattanze a Gaza e a Beirut non ne abbiano già configurato gli estremi. Tuttavia le rimostranze non servono a frenare a Israele. Spintosi senza orizzonti risolutivi sino a questo punto, fermarsi sembra impossibile. La compulsione belligera si condisce di vari ingredienti motivazionali. Anche al netto delle frange rabbiniche che incoraggiano ad accelerare l’arrivo messianico mediante l’espansione territoriale, suggerite dalle parole del ministro Smotrich sull’estensione sino a Giordano, Libano, Siria, parti di Egitto e Iraq. La società israeliana è in fibrillazione da diverso tempo, in un clima rovente che l’attuale governo conta di scaricare all’esterno. Ma pesa anche l’insofferenza per la battaglia di retroguardia che il garante Usa sta patendo nella competizione globale, che si riverbera sul piano regionale nelle difficoltà per Israele di assicurarsi quel che cercava con gli Accordi di Abramo. Di qui la scelta di assumere l’iniziativa senza remore, rimuovendo qualsiasi argine. E gli attacchi all’Unifil servono anche a mettere la Casa Bianca in mora, non bastando l’appoggio di risulta che essa assicura con armi e veti: Netanyahu forza una volta di più Washington a decidersi senza riserve, secondo la logica del “con noi o contro di noi”.
Ma c’è di più: la spallata allo Stato libanese coinvolge anche le proiezioni economiche israeliane, al momento tutt’altro che rosee.
Il Libano, nella cartina delle “terre benedette” presentata da Netanyahu all’Onu, integra il passaggio dell’Imec, corridoio commerciale tra India ed Europa intavolata a settembre 2023, che farebbe di Israele un attore nevralgico di una rotta concorrenziale al ramo mediorientale delle Vie della Seta. Ma giova ricordare anche le vertenze sui confini marittimi tra Tel Aviv e Beirut, acuita dalla scoperta dei giacimenti di gas di Qana e Karish, contesi dal 2010. Nel 2022, dopo il sabotaggio del NordStream, i due Stati avevano raggiunto un accordo: Qana, la riserva maggiore, al Libano (pronto a ingaggiare la francese Total per sfruttamento), a Israele Karish con l’aggiunta di royalties compensative. Tornato al governo, Netanyahu aveva ricusato l’intesa per pretendere l’esclusiva su entrambi.
Per tutelare il proprio contingente Unifil, il governo italiano può ben poco. Non semplicemente perché il comando dei caschi blu fa capo all’Onu e, segnatamente, al Consiglio di Sicurezza. Le preoccupazioni da Roma tradiscono l’imbarazzo anche perché, oltre agli ovvi vincoli d’affiliazione atlantica che rimandano a Washington, pesano anche i legami stretti con Israele negli ultimi anni. Il Memorandum sulla cooperazione militare italo-israeliana dal 2003 a oggi si è molto ampliato, dagli armamenti all’addestramento in Italia, con tanto di esercitazioni aeree in Sardegna. Come pesano gli appalti ad aziende di Silicon Wadi per la cybersicurezza nazionale. Giusto a maggio, il “ddl Sicurezza” è stato emendato per aprire le porte alle startup israeliane, prima escluse giacché esterne a Ue e Nato.
Ma gli ostacoli non giustificano la tentazione affacciatasi in quegli editoriali che, nel mettere in discussione l’utilità della missione, convengono in fin dei conti sull’invito israeliano al ritiro. Taluni addirittura alludendo a episodi di connivenza tra Hezbollah e il personale del contingente, da sempre elogiato per via della sua imparzialità.
Elogi peraltro rivendicati dall’ultima visita di Meloni ai nostri caschi blu, affermando proprio in quella sede la necessità della deterrenza armata. Dare corda alla tentazione in parola, oltre che essere iniquo per i nostri soldati, significa replicare il tipo di sponda offerto alla delegittimazione dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente) intentata dal governo israeliano senza prove, parlando di connivenze tra gli operatori umanitari (diversi dei quali rimasti uccisi a Gaza) e Hamas. Ancora un’altra tentazione si sta affacciando in queste ore: non semplicemente andarsene, come pretende l’Idf, ma modificare le regole di ingaggio dell’Unifil, affinché la sua interposizione non faccia scudo ma diventi attivamente collaborativa contrastando sul campo la resistenza dei guerriglieri. Sicché, eccedendo nel farsi più realisti del re, si snaturerebbe la ratio della missione, trasformando i caschi blu in alleati d’elezione di una parte, gettando un’onta pregiudiziale su qualsiasi altro mandato di peacekeeping.
I caschi blu non possono assumere iniziative offensive, tuttavia è previsto che possano rispondere al fuoco, che nei fatti è stato esclusivamente israeliano. Sinora i militari Unifil si sono astenuti dalla facoltà, non soltanto perché in condizione di inferiorità d’armi, ma soprattutto per non far precipitare gli eventi in un avvitamento che peraltro gli Usa, dalla Casa Bianca o dal Palazzo di Vetro, non avallerebbero per nessuna ragione al mondo.
Per evitare il peggio, in caso di reiterazione, la strada da percorrere potrà essere l’embargo agli armamenti e le sanzioni economiche, quantomeno con restrizioni significative all’export di Israele. Esso infatti dipende molto dai mercati occidentali, non trovando molti altri sbocchi adeguatamente alternativi. Per quanto Israele possa mostrare i denti di socio indomabile, i fatti, in questi giorni, suggeriscono una certa ponderazione nel definire la contro-rappresaglia ai danni dell’Iran. Teheran minaccia, se attaccata, di colpire i pozzi del Golfo Persico e di bloccare lo Stretto di Hormuz, l’arteria del greggio più importante al mondo. Ciò ha ottenuto dalle monarchie saudite non solo la riaffermazione della propria neutralità (che significa chiusura dello spazio aereo), ma anche la prefigurazione di oggettivi sbarramenti commerciali nell’area. Se ciò si aggiungesse alla bancarotta del porto di Eliat, bloccato dall’interdizione degli Huthi ai cargo a esso destinati, l’economia di Israele si esporrebbe allo strangolamento, con pericolose ricadute interne. Anche lo spunto sanzionatorio potrebbe trovare gli Usa di traverso: ma ciò non esclude soluzioni intermedie o aggiramenti “consenzienti”. A cominciare dall’Europa, se solo la Commissione cominciasse a proferire parola sui fatti in Libano. Nel frattempo, mentre a Washington si parla di sanzioni all’Iran, il curioso invito alla de-escalation spedito da Parigi a Teheran in attesa del colpo israeliano potrebbe essere un messaggio in codice, rivolto non tanto alla Repubblica islamica, quanto ai sodali occidentali, dato che se con Israele non si può ragionare…
Al di là del rischio che Israele intende davvero correre cacciandosi in un isolamento senza pari, in gioco c’è la credibilità della stessa comunità internazionale, o meglio della sua frazione occidentale, afflitta da miopie e contraddizioni. Avallare la condotta israeliana confezionerebbe un ennesimo precedente per chiunque altro fosse abilitato a evocare scontri di civiltà, forte del sussiego esterno di chi si prestasse a giustificare gli arbitri di coloro che “combattono per noi contro la barbarie”, senza accorgersi di chiamarsi in causa nel ruolo di mandanti, pur senza esserlo.
Responsabilità troppo grave, quella di affossare definitivamente detta credibilità. D’altronde a ciò ci si espone, come a una pena del contrappasso, quando si screditano le strade negoziali e si censurano quanti le invocano, per affidare le soluzioni alla furia delle armi. Senza riconoscere per tempo che, su questa linea, nessuno può reputarsi immune. Neanche dal fuoco “amico”.
(*) Pontificia Università Lateranense