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Israele e il muro. Cosa cambia dopo il «no» dell’Onu
Che valore ha questa risoluzione?
“È piuttosto importante anche se è noto che da 20 anni circa l’Assemblea dell’Onu mostra delle posizioni in contrasto con Israele. In ogni caso la votazione aumenta la pressione internazionale sullo Stato di Israele anche se questo non ha nessuna intenzione di smantellare il muro che, a parer suo, ha contribuito alla diminuzione di attentati suicidi palestinesi nel proprio territorio. Attentati che sono diminuiti, forse non solo per il muro, ma anche per il clima di divisione e di caos all’interno delle varie fazioni palestinesi in lotta”.
L’Europa ha votato compatta a favore della risoluzione, suscitando anche la delusione del governo israeliano che si aspettava forse una astensione
“Dopo la sentenza della Corte dell’Aja, credo che l’Europa non poteva fare diversamente. Tuttavia il voto non elimina le sfumature e le diversità all’interno dei Paesi europei nel trattare la questione israelo-palestinese e la politica internazionale”.
Qual è il dato più rilevante di questa votazione?
“Sicuramente la maggioranza schiacciante, che ha votato a favore, ha ‘isolato’ Israele e gli Usa dal resto dell’Assemblea. Per Israele, adesso, si tratta di rifarsi una rispettabilità a livello internazionale. Anche se credo che una vittoria l’abbia raggiunta ”.
E quale sarebbe?
“Quella di legare la barriera ai negoziati di pace, facendola diventare oggetto di trattativa. Nel momento in cui riprenderà una seria trattativa di pace questa non potrà prescindere dal muro che si sta costruendo. E fino a quando il negoziato di pace non riprenderà con vigore questo non verrà smantellato. Israele fino ad allora continuerà per la sua strada”.
Ritiene possibile una ripresa dei negoziati, magari in vista delle prossime elezioni americane?
“Penso che il dramma del processo di pace sta nel fatto che Sharon non è ancora giunto ad accettare uno Stato palestinese veramente tale. Per il premier lo Stato palestinese dovrebbe essere una specie di tante piccole enclave. La continuità territoriale della Palestina è inaccettabile anche perché questa significherebbe mettere a repentaglio le colonie. Queste rappresentano un grande scoglio al dialogo”.
Come leggere, allora, lo smantellamento delle colonie nella Striscia di Gaza?
“Con l’intenzione di mantenere le altre, più grandi, in Cisgiordania. A Gaza i coloni sono poche migliaia e la loro difesa non è strategica. Un conto è smantellare colonie dove vivono centinaia di migliaia di persone, altro è smantellare colonie dove vivono qualche migliaio di israeliani”.
A Gaza in questi giorni si respira un clima quasi di guerra civile. Forse per Arafat è giunto il momento di lasciare?
“Quello che sta succedendo in questi giorni a Gaza testimonia la frammentazione del panorama politico palestinese. Il controllo diretto da parte del leader dell’Autorità nazionale palestinese delle forze di sicurezza, uno dei nodi della crisi, insieme alle accuse di corruzione, con il primo Ministro Abu Ala, si collega alla possibilità di controllare effettivamente i terroristi, ammesso che ce ne sia la capacità. E vedendo le immagini da Gaza viene il dubbio se nell’ambito palestinese prevalgano più ‘i favorevoli’ al terrorismo che quelli contrari. Quando la pace si allontana si sgretola anche quel fronte palestinese, più politico e meno fondamentalista, disposto a dare pace in cambio di territorio. Quanto ad Arafat credo che si stia compiendo la sua parabola politica, anche se non vedo all’orizzonte un ‘delfino’ che lo possa sostituire”.