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Israele e Hamas, bambini in guerra
Per Noemi Grappone, psicoterapeuta esperta in traumi da guerra e violenza, il primo passo è riuscire a sopravvivere; il secondo ricostruire la vita dopo il drammatico impatto psicofisico subito. Indispensabile un supporto immediato e a lungo termine.
Bambini palestinesi uccisi, gravemente feriti o costretti a vivere nel terrore sotto le bombe; bambini israeliani ostaggio di Hamas. Sono le due facce della stessa medaglia: il prezzo altissimo che l’infanzia sta pagando nell’atroce conflitto Israele-Hamas, come in ogni altra guerra. E non c’è differenza di religione, popolo o etnia: il dolore innocente non ha bandiere. Save the Children rilancia i dati diffusi dalle autorità sanitarie palestinesi e israeliane: dal 7 ottobre sono stati segnalati più di 3.257 bambini uccisi, di cui almeno 3.195 a Gaza, 33 in Cisgiordania e 29 in Israele.
Oltre 4mila i piccoli palestinesi feriti, anche con gravi mutilazioni, durante il bombardamento dell’ospedale anglicano del 14 ottobre e durante i continui attacchi aerei; tutti costretti a vivere nella paura, magari dopo avere assistito alla morte di un genitore o di un fratello, nella scarsità di cibo, acqua, cure mediche, senza più andare a scuola. A Gaza si conta circa un migliaio di bambini dispersi che potrebbero essere sepolti sotto le macerie. E il bilancio è destinato a salire. Quelli che sopravvivranno, quali conseguenze psicologiche porteranno con sé?
Intanto il governo di Tel Aviv ha diffuso le foto dei piccoli israeliani rapiti il 7 ottobre dai terroristi di Hamas. Il più piccolo, Kfir, ha appena nove mesi; accanto a lui il fratello Ariel, 4 anni. Il più grande ha 17 anni. Non sappiamo se sono ancora tutti vivi. Che cosa stanno passando, che cosa significa per loro questa prigionia insensata? Quanto li segnerà, ammesso che riescano a sopravvivere e a ritrovare la libertà?
Per tutti loro, scampare alla morte è il primo passo. Il secondo, ritornare alla vita. Ci riusciranno? Come? Ne abbiamo parlato con un’esperta: Noemi Grappone, psicologa psicoterapeuta Emdr practitioner, e membro di Emdr Italia. L’Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è uno strumento terapeutico impiegato nel trattamento di disturbi legati ad eventi stressanti e/o traumatici: violenze, incidenti, gravi lutti, guerre.
“In un recentissimo studio condotto nella Striscia, in aree sottoposte a bombardamenti continui e ad altri atti di violenza militare – esordisce Grappone -, si è tentato di stabilire una relazione tra esperienze traumatiche della guerra in corso, disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) e sintomi di ansia nei bambini, tenendo conto anche delle risposte di salute mentale dei genitori. Nel campione analizzato – 100 famiglie con 200 genitori e 197 figli di età compresa tra 9 e 18 anni – è stato riscontrato, sia nei bambini sia nei genitori, un elevato livello di eventi traumatici vissuti, alti tassi di Ptsd e di ansia”. L’esposizione a traumi di guerra ha un forte impatto sulla salute mentale sia dei genitori sia dei bambini, e le loro risposte emotive sono correlate. Per questo, sostiene l’esperta, “occuparsi di bambini e delle loro risposte psicofisiche, implica sempre il coinvolgimento trasversale dell’intero gruppo familiare”.
Quali sono i sintomi più comuni nei bimbi direttamente esposti ai conflitti?
Molti sviluppano reazioni di stress post-traumatico sia a breve che a lungo termine. I sintomi più ricorrenti includono tristezza, rabbia, paura, intorpidimento, irritabilità, sbalzi d’umore, cambiamento dell’appetito, difficoltà nel sonno, incubi, evitamento di situazioni che richiamino l’evento traumatico, compromissione della concentrazione, senso di colpa per essere sopravvissuti o per non avere riportato conseguenze importanti durante l’evento. A questo si aggiunge un altro elemento significativo, ma poco narrato.
Di che si tratta?
Dell’impatto della separazione sul bambino, esperienza nota grazie al lavoro svolto quando i piccoli venivano separati dai genitori al momento del ricovero in ospedale. Molte ricerche dimostrano che nei bimbi separati dai genitori – in particolare di età inferiore ai 4 anni – si manifestano sintomi di ansia, alimentazione disregolata, maggiori complicazioni postoperatorie, astinenza, disturbi del sonno e aggressività. Una separazione prolungata può anche portare a traumi dello sviluppo: disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbo oppositivo provocatorio, deterioramento cognitivo. Questo avviene in particolare a Gaza dove, a causa del peggioramento dei servizi sanitari, molti bambini affetti da patologie emergenziali o a lungo termine hanno bisogno di servizi più specializzati di quelli disponibili sulla Striscia, ma Israele richiede a tutti i palestinesi un permesso rilasciato dalle autorità israeliane prima di poter lasciare Gaza. I genitori di bimbi malati hanno inoltre bisogno di uno speciale “permesso di accompagnatore”; permessi che vengono in molti casi negati per motivi di sicurezza. Due le conseguenze: o la rinuncia al trasferimento, oppure l’accompagnamento del piccolo malato da parte di un altro familiare o da un conoscente, con grave disagio per il bambino e spesso parziale o assente comunicazione con la famiglia sulle sue condizioni.
Dall’operazione “Piombo fuso” ad oggi, i bambini della Striscia vivono comunque da anni nell’insicurezza.
Una costante insicurezza che genera paura, impotenza e orrore nell’intera popolazione, ma di cui i bambini risentono maggiormente. Già dopo “Piombo fuso” (la guerra durata dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, ndr) uno studio condotto dal programma di salute mentale della comunità di Gaza (Gcmhp) aveva rilevato che il 75% dei bambini di età superiore ai sei anni soffriva di uno o più sintomi di stress post-traumatico. Ma nell’enclave il trauma è continuo, dura da almeno due decenni e stenta ad esaurirsi. Il sistema sanitario di Gaza, già messo a dura prova prima della guerra in corso, è ora sull’orlo del collasso, e gli esperti di salute mentale hanno da tempo messo in guardia sul terribile tributo imposto ai bambini.
Preoccupa anche la condizione di prigionia dei bambini israeliani in mano ad Hamas.
Assolutamente sì. Sui bimbi israeliani non abbiamo studi in materia perché le loro condizioni, fino al 7 ottobre, sono state di relativo benessere, ma certamente anche questi piccoli ostaggi stanno subendo il medesimo senso di impotenza e paura con il rischio di sviluppare disturbo da stress post-traumatico. Le conseguenze sono le stesse per entrambe le parti perché i bambini non hanno “bandiere”; sono gli adulti ad affibbiargliele.
Oltre ai bimbi direttamente coinvolti, ci sono quelli che “assistono” da lontano alla guerra, magari in Tv.
Il trauma, infatti, non riguarda solo chi è direttamente esposto, che ne è vittima primaria, ma anche chi, in questo caso altri bambini, da lontano e indirettamente assiste a questo crimine contro l’umanità. Il guardare in Tv feriti e corpi mutilati e l’udire il rumore dei bombardamenti costituisce per loro un evento traumatico. Più esposti a questa traumatizzazione i maschietti che le bambine; meno i bimbi che vivono in famiglie ad alto reddito; sembra invece non esserci un legame con l’età.
Dottoressa, lei fa parte di Emdr Italia, una delle 40 associazioni nazionali che aderiscono a Emdr Europe. In che cosa consiste il vostro lavoro sul campo?
L’associazione Emdr Europe si offre da sempre di intervenire con specialisti formati sul trauma. Se impossibilitati a raggiungere le aree direttamente colpite, ci si avvale di mezzi telematici pur di offrire supporto, contenimento ed elaborazione della sintomatologia del Ptsd, come già accaduto in altre emergenze umanitarie. Dopo i primi due giorni di bombardamenti russi contro il territorio ucraino, Emdr Europe, con i suoi 40 Stati membri, si è attivata a livello di supporto psicologico e fornendo una guida per fronteggiare l’emergenza. Per la prima volta gli psicologi sono potuti intervenire in modo massiccio in un setting di guerra in corso a sostegno delle persone in Ucraina, sulla frontiera e nei Paesi di frontiera – Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria – e in tutto il resto dell’Ue nelle aree che ospitano grandi comunità di rifugiati. Ci auguriamo di poter offrire sollievo, facendo prevenzione e promuovendo la salute mentale anche in questa drammatica emergenza bellica Israele-Hamas.