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Iraq, tutti se ne possono andare nessuno può tirarsi fuori

di Romanello CantiniLa situazione in Iraq si sta rapidamente deteriorando. C’è una guerriglia diffusa e un terrorismo sempre più feroce e mirato.

Chi, come il nostro contingente militare, era andato in Iraq per operare nel dopoguerra c’è andato troppo presto e si trova a destreggiarsi in una guerra di fatto. È evidente che una cosa è andare in un paese a mettere su ponti ed ospedali e una cosa è restarci a rispondere ai colpi di mortaio. Anche difendersi vuol dire combattere, anche salvarsi vuol dire sparare. Aumenta il coinvolgimento emotivo, si aggiungono nuove vittime, non sappiamo più se siamo dentro o fuori la Costituzione, se siamo agli occhi degli iracheni infermieri o bracconieri.

Ma soprattutto non si sa più se il gioco vale la candela; se cioè la presenza delle truppe della coalizione in Iraq riduce la violenza o la aumenta, se porta verso una pacificazione seppure lenta oppure verso una guerriglia infinita. Se si contano le vittime sempre più fitte e le bande che progressivamente scendono in campo la risposta non sembra essere quella più confortante. Il che significa che non ha senso restare in Iraq molto a lungo in queste condizioni e con questa coalizione.

E tuttavia anche qualora tutti se ne vadano dall’Iraq, l’Iraq rimane lì con il suo vuoto di potere, con il suo caos presente e con il suo futuro indecifrabile forse peggiore del regime di Saddam. Tutti possono andarsene, ma nessuno può tirarsi fuori da un problema che c’è, anche se è stato provocato da altri. Come negli incidenti stradali è responsabile di omissione di soccorso non solo chi ha provocato il sinistro, ma chiunque lo veda.

In questa vicenda irachena, come in tutte le imprese non riuscite, c’è ancora qualche gradino fra il trionfo che si immaginava e la catastrofe totale a cui si rischia di andare incontro. Lasciamo stare pure la costruzione di una democrazia come la nostra, la ricostruzione di un nuovo Medio Oriente, l’isolamento degli «stati canaglia» e via dicendo: tutte ciambelle che sono senza buco. Ma nessuno può accettare a cuor leggero che l’Iraq diventi il trionfo di Al Qaeda, il nuovo santuario del terrorismo internazionale dopo la cacciata dall’Afghanistan. O che, per esempio, un monopolio del potere da parte degli sciiti più estremisti diventi una minaccia per i diritti umani di tutta la società civile, dalla libertà delle donne alla sopravvivenza di quel poco che rimane della minoranza cristiana nel paese.

Ora perfino il nostro governo sembra convinto che è necessario «un taglio netto». Il che significa per noi intervento diretto dell’Onu, passaggio rapido del potere ad un governo iracheno, elezioni il più presto possibile.Senza peraltro farsi troppe illusioni. L’Onu è stata fra i primi obiettivi del terrorismo in Iraq. Ma un governo composto da iracheni e un passaggio di poteri assicurato dalla massima autorità internazionale convincerà molti più iracheni di oggi a lavorare in direzione della pace anzichè in quella di una guerra di tutti contro tutti.

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