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Iraq, tre anni di una guerra senza fine e senza un fine

di Romanello CantiniGli anniversari delle guerre sono sempre tristi come i compleanni dei vecchi. Ed anche il terzo anno della guerra in Iraq è stato compiuto in questi giorni senza che nessuno avesse il coraggio di emettere un qualche bollettino di vittoria o di offrire in tempi brevi una speranza che sia qualcosa di più di un auspicio.

Tre anni sono quasi l’età di una guerra mondiale. E questa guerra in Iraq, di cui era stata proclamata a suo tempo la vittoria appena un mese dopo il suo inizio, continua ancora a contare quasi ogni giorno decine di morti, ad allontanare la ricostruzione, a brancolare alla ricerca di un nuovo equilibrio di potere e di un nuovo ordine interno.

A mano a mano che i pochi mesi di guerra immaginati all’inizio diventano anni ci si accorge che il conto non torna, che c’è un abisso fra il preventivo e il consuntivo, che è sempre più difficile trovare una fine e un fine a questa guerra visto che ogni scenario immaginato all’inizio sembra farsi rincorrere invano. Sembra che questa guerra in Iraq sia costata settanta miliardi di dollari all’anno, molto di più cioè dei cinquanta miliardi di dollari che ogni anno il mondo intero dedica in aiuti al sottosviluppo.

Perfino la prima potenza militare del mondo non può sostenere ancora per anni una guerra in cui i suoi 150.000 soldati volontari vanno sostituiti ogni anno senza reintrodurre la coscrizione obbligatoria. Ma, nonostante questo spreco e questo sforzo, si rischia di lasciare con il risultato di aver abbattuto una dittatura sanguinaria per sostituirla con una guerra civile cronica ancora più sanguinosa se è vero come è vero che ormai le decine di migliaia di vittime della violenza in Iraq, a dispetto della teoria dello scontro di civiltà, sono soprattutto musulmani sciiti trucidati da musulmani sunniti con gli attentati nelle moschee, nelle piazze e nelle strade.

Nonostante la partecipazione massiccia degli iracheni alle ultime consultazioni elettorali, a più di tre mesi di distanza dalle elezioni del 15 dicembre non si è riusciti a costituire un governo che comprenda sciiti, sunniti e curdi. La polizia e l’esercito iracheno che dovrebbero sostituire le truppe di occupazione appaiono ancora troppo fragili ed hanno spesso dato prova di codardia e di possibilità di infiltrazione da parte del nemico. Di fatto il dilemma in cui il grande pasticcio americano si è cacciato è quello di continuare una occupazione che sempre più esaspera gli iracheni o di abbandonare precipitosamente il paese alla guerra civile e alla prima grande vittoria di Al Qaeda che esce trionfante da una guerra che, si diceva, doveva segnare la sua sconfitta.

In ogni caso rimane oscuro l’enigma di che cosa poi alla fine sarà questo Iraq «democratico» in un ancora ipotetico dopoguerra soprattutto oggi che ci accorgiamo che la guerra gemella condotta in Afganistan ha eliminato un regime che condannava le donne a non uscire di casa ed ha introdotto un regime che condanna a morte un musulmano che si è convertito al cristianesimo. La guerra immaginata come grimaldello per far posto ai moderati e per aprire la porta alla democrazia nel mondo arabo e musulmano è la grande disillusione del momento. Di questa guerra bisogna venirne a capo per ricominciare da capo.

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